«Gli oligarchi sono tutti all’estero», si potrebbe dire parafrasando il Poligraf Poligrafovic de «I signori sono tutti a Parigi» in Cuore di cane. Ma non sarebbe vero. Molti oligarchi, numerosi multimiliardari (se non i più ricchi, di sicuro quelli più legati al potere) sono in Russia, o in alcune delle repubbliche ex sovietiche.

Sembrerebbe dimostrarlo il fatto che le ultime sanzioni occidentali riguardino, oltre che compagnie, istituti, banche, anche vari personaggi di primo piano dell’economia e della politica russa, i cui nomi, si dice, comparivano già prima in un elenco messo a punto dal dissidente russo Aleksej Navalnyj.

Che poi le misure Usa e Ue mirino a colpire davvero l’obiettivo verso cui sarebbero indirizzate, è un’altra storia; non a caso, tra i nomi citati da Navalnyj figurano anche personaggi come Abramovic, Usmanov, Secin (Rosneft: l’ex Jukos di Khodorkovskij), Miller (Gazprom), che, per ragioni esposte da Matteo Tacconi sulle pagine di questo giornale, non sono tra i «sanzionati».

Spingere Mosca a cambiare

Far cambiare politica a Mosca sulla questione ucraina, sarebbe dunque l’obiettivo intermedio e la tappa conclusiva, sulla strada di una completa penetrazione del capitale occidentale a est. Può sintetizzarsi in questo modo il tentativo di togliere di mezzo Putin mediante una «congiura di palazzo» da parte della sua cerchia più intima. Percorso che può non essere alternativo o disgiunto da quello più «democratico» di minare – peggiorandone le condizioni quotidiane – la fiducia della numerosa (nelle città) classe media nei confronti del Presidente.

In ogni caso, ultimamente, sempre più numerosi media occidentali stanno insistendo su ciò che a Mosca, anche pubblicamente, si va ripetendo da tempo: che cioè Vladimir Putin, tra le altre misure volte a contrastare i piani espansivi di Usa e Nato, dovrebbe anche procedere a «una conta» degli amici in casa propria.

Perché proprio su quelli, pare abbiano messo gli occhi i servizi occidentali per tentare di allargare quella «crepa» che, a detta di Der Spiegel, il capo del Servizio informazioni tedesco Gerhard Schindler vede nell’apparente monoliticità del Cremlino. Nell’un caso e nell’altro, è difficile sfuggire alla sensazione di un gioco «a circuito chiuso», in cui lo spettatore non può non domandarsi se uno degli attori sia due volte più tonto o l’altro tre volte più furbo, avendo a mente che i servizi analitici delle due parti – non da ora – stanno mettendo nel conto tutte le mosse e contromosse dell’avversario.
Sia che si tratti di tenere sotto controllo persone e istituti su cui l’occidente potrebbe far perno per un rovesciamento di regime; sia che si parli di far emergere un malcontento che, se si era manifestato apertamente pochi anni fa, sembra oggi quasi completamente assopito dalla «unità attorno alla bandiera», rappresentata da un Presidente diventato simbolo dell’orgoglio nazionale.

«Ma questo è comunque relativo», ci fa notare un conoscente moscovita che da oltre vent’anni non smette di maledire «quei tre criminali di stato – Eltsin, Kravchuk e Shushkevic, nel 1991 rispettivamente presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia – che in una notte disfecero quella grande potenza che era l’Unione sovietica. Non importa che gli analisti russi sappiano che gli americani sanno che i russi sanno… Quanto alla fedeltà o meno di politici o finanzieri che debbono a lui la propria fortuna, l’unica garanzia per Putin sarebbe l’assioma staliniano «c’è un uomo, c’è un problema; non c’è l’uomo, non c’è il problema».

La cerchia di fedelissimi

Quindi, per quante misure possa aver adottato Putin per mettersi al sicuro da eventuali colpi preparati a Washington o a Berlino per mano di magnati russi – l’ex consigliere di Reagan, Herbert Meyer, evidentemente esperto in tali attività, consigliava a qualche oligarca la pallottola alla nuca del Presidente o la bomba sul suo aereo – per sbalzarlo di sella; per quanto egli lavori al rafforzamento (e arricchimento) di una cerchia di «fedelissimi», dopo la «svolta» degli arresti e fughe dei magnati Gusinskij, Berezovskij e Khodorkovskij a inizio anni 2000, con quello che il politologo Alexander Tsipko, su Pravda.ru definisce «il superamento del potere degli oligarchi, l’élite dell’era Eltsin, con un’altra parte di oligarchi, che ha deciso di cooperare con il governo, mantenendo così la propria influenza»; per quanto riesca (per ora) ad attrarre, con sempre più frequenti riferimenti alla simbologia dell’Urss, le masse di scontenti per scelte economiche che fanno rimpiangere il «welfare» sovietico, il Presidente non è affatto al sicuro da tentativi esterni e interni di accelerare, insieme alla sua uscita di scena, una svolta della Russia verso il libero mercato, più marcata rispetto a quella da lui stesso pilotata.

Il «putinismo romantico»

Questa, del resto, è anche l’opinione dell’analista del Pc russo Aleksej Bogacev, il quale, già diversi mesi addietro, parlava di un «putinismo romantico», a proposito di coloro che, al seguito del nazionalista Aleksandr Prokhanov, pur consapevoli di come la politica di privatizzazione di Putin e Medvedev scavi un divario sempre più profondo tra i redditi dei diversi gruppi sociali, la corruzione permei tutte le strutture di potere e di controllo, mentre lo Stato si sbarazza delle protezioni sociali, vedono in lui una sorta di «ancora» che frenerebbe una veloce ricaduta nel liberismo occidentale degli ultimi eltsiniani Nemtsov e Chubajs

Perchè, anche se il caso di Khodorkovsky, nel 2003, ha rappresentato «una pietra miliare nel rapporto tra governo e oligarchi, il carattere oligarchico dell’economia russa non è affatto superato; è stato ottimizzato grazie a una sorta di patto di autocontrollo tra governo e oligarchia» scrive su Pravda.ru il Presidente dell’Istituto di Strategia nazionale Mikhail Remizov.
E ancora Nikolaj Petrov raffigura una sorta di «politbüro putiniano» in cui sono rappresentati Governo (Medvedev), settore energetico (Secin), complesso militare-industriale (Cemezov), ferrovie (Jakunin), ma che comprende anche esponenti di settori strategici per la difesa e l’economia, ufficiali e, per l’appunto, magnati quali Timcenko, Rotenberg, Kovalchuk, Cemezov, Potanin, Alekperov, Mordashov, Lisin, Usmanov, Deripaska, Varnig, tutti compresi nell’elenco di Forbes dei multimiliardari russi.

L’opinione degli Usa

Dunque, stando al solito Forbes, il governo di Putin volge al termine. «A toglierlo di mezzo sarà o la classe dirigente della sua cerchia più ristretta – gli apparati di sicurezza – o si asssiterà a una rivoluzione del tipo di Ucraina o Egitto».

Questo, perché «il potere del Presidente si basa sulla sua capacità di arricchire gli uomini a lui più vicini, già di per sé non poveri e, all’occorrenza, punirli con la confisca dei beni e la prigione. Una volta capito questo, diventano chiare due cose: la caduta di Putin è inevitabile e la politica delle sanzioni del presidente Obama per l’annessione della Crimea, è una misura giustificata ed efficace».

D’altro canto, l’ucraino Roman Goncharenko, scrive su Deutsches Welle che «le sanzioni Ue hanno reso nervosi gli oligarchi russi. Ma non ci sarà né un rapido cambiamento della politica di Mosca sull’Ucraina, o un cambio di potere in Russia.

Putin ha impiegato oltre 10 anni per mettere in piedi il proprio sistema di potere: nei posti chiave, anche dell’economia, ci sono suoi uomini» cui, tra l’altro, è proibito avere immobili fuori della Russia o viaggiare all’estero, in una specie di nazionalizzazione della élite, una «coalizione piramidale che monopolizza il controllo sui rapporti potere-proprietà», scrive Boris Makarenko. «In tal modo Putin – dice ancora Goncharenko – li ha resi meno vulnerabili alle sanzioni. Se Putin cede alla pressione delle sanzioni, nel suo paese ciò sarà considerata una manifestazione di debolezza. Per Putin sarebbe un suicidio politico. Le sanzioni sono la strada giusta per costringere Mosca a cedere. Ma il risultato si farà attendere per anni».

E l’economista Mikhail Khazin, intervistato da ZavtraTV, pronostica per ottobre-novembre una decisa svolta mondiale (in particolare cinese) che potrebbe consentire a Putin di contrastare i piani della finanza anglosassone e di quella parte dell’élite tedesca pro-americana di toglierlo di mezzo, a patto che lui agisca per un cambio radicale di tutta la sua squadra.
Insomma: scontri al vertice, che lasciano poco spazio a spostamenti dell’opinione pubblica che, se ci sono, sono tutti a favore del Presidente. Il Centro Levada rilevava due anni fa che il 37% dei russi riteneva che il Governo tenesse di conto soprattutto degli interessi dei ricchi e dei clan; un anno fa, il 50% giudicava l’élite al potere preoccupata solamente del proprio benessere; nell’aprile scorso il 52% riteneva che l’obiettivo principale dei governanti fosse il rafforzamento del proprio potere.

Ma alla domanda «Ci sono nemici del nostro popolo e del nostro paese?», il 26% rispondeva «Il nostro paese è circondato da nemici da ogni parte», il 20% «I nemici più pericolosi sono quelli nascosti, interni» e il 30% «Un popolo sulla via della rinascita ha sempre nemici».

Ad ogni modo, se un anno fa il 41% dei russi non avrebbe voluto vedere Putin ancora Presidente alle elezioni del 2018, contro un 25% a favore, oggi, con un forte «effetto Crimea» di «entusiasmo patriottico», le percentuali si sono ribaltate al 22 e 49%.