Si è aperta nella città dei mitici Sassi una mostra che, per esteso, si intitola Pasolini a Matera. Il Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo. Nuove tecniche di immagine: arte, cinema, fotografia, e ci sarà tempo fino al 9 novembre per andarci. Già dal titolo, molte promesse. Ce n’è per rievocare, per celebrare, per promuovere, per studiare, per capire, per intrattenersi e per divertirsi. Non si immagini una mostra celebrativa, che corre sempre il rischio di diventare un percorso triste tra quattro o quattrocento oggetti messi in fila. Invece, a ricostruire e a proporre un attento riesame storico di quella vicenda, con tanti documenti spesso rari e difficili da avvicinare, è un allestimento che favorisce un approccio sensoriale e istintivo. La narrazione cui i curatori (Marta Ragozzino e Giuseppe Appella, con Ermanno Taviani e Paride Leporace) danno forza è l’insieme di atti, di volontà e di strumenti che permisero e implicò la realizzazione di un progetto culturale che includeva tante cose, come un teatro di scatole cinesi. In fondo si può pensare che un semplice set cinematografico possa aver fatto (e continui a fare) da centro catalizzatore di diversi percorsi materiali e astratti, purché non si disprezzino le occasioni concrete, purché non si banalizzino le scelte pratiche, purché non si riduca ogni gesto a un consuntivo. Il divismo pasoliniano, strumento ed essenza di un artista/intellettuale capace, quanti altri mai, di agire un contesto d’arte totale, continua a fare la sua parte ora più di allora. Cosa che quasi dà piacere, come un solletico discreto, rispetto a tante proposte anestetiche nelle quali il mettersi in gioco suona (per volontario edonismo) come una maniera compiaciuta.
Dunque il visitatore troverà accoglienza e sollievo sia che desideri partecipare virtualmente a un momento felice della cultura italiana, ricco come fu di riparazioni e promesse, sia che voglia ascoltare il solido discorso critico che i curatori hanno predisposto (e per il quale, visto anche il concorrere di così tanto materiale – manoscritti, foto, registrazioni, oggetti e filmati – si deve auspicare un catalogo, ancora non secondario mezzo di sopravvivenza degli eventi). E intanto che prepara il bagaglio, il potenziale visitatore accetterà di essere accompagnato con un paio di riflessioni, tra le tante che una mostra di questo tipo può suscitare.
La prima riguarda l’eredità culturale. Il Vangelo secondo Matteo, che Pasolini realizzò nel 1964 dopo una lunga preparazione (tra cui un decisivo sopralluogo in Palestina del 1962) può a tutti gli effetti considerarsi una traduzione, da un mezzo verbale a un mezzo visuale, dal libro al film. La narrazione sacra non venne tradita né interpretata ma come riscritta in un’altra lingua (sulla cui peculiarità Pasolini teorizzò in vari scritti), per essere trasferita in un diverso ambito di comunicazione e, forse soprattutto, in un diverso ambito percettivo. Non che mancasse un immaginario visivo della vita di Cristo, dalla pittura certo ma anche da qualche film, che infatti viene largamente ritradotto in nuove immagini. E non mancava neppure una lunga tradizione di riscrittura della narrazione evangelica, anche molto recente, che aveva riguardato la letteratura, il teatro, la radio e la televisione: tutti esercizi o esperienze di ricollocazione del sacro nei nuovi media, che anche gli operatori religiosi avevano guardato con interesse e spesso patrocinato. Forse, una così diffusa attrazione per il racconto evangelico, che accomunava religiosi e atei, sia pure inaspettatamente, proveniva dal fatto che al centro di quel racconto ci fosse l’evento: ora manifestazione del sacro e dell’ignoto, dell’invisibile, ora e diversamente condizione sensibile di ogni comunicazione, elemento di concretezza (anche se con derive spettacolari) tra interlocutori materialmente distanti.
Presenza e assenza, distanza e vicinanza, riconoscibilità e mistero, furono proprio gli elementi centrali della riflessione estetica che Pasolini elaborò nella concezione di quest’opera. Quando era andato in Palestina era rimasto sorpreso di quanto quello spazio geografico e antropico fosse piccolo e modesto, quasi angusto: «alla delusione pratica corrisponde invece una profonda rivelazione estetica […]le cose quanto più sono piccole e umili tanto più sono profonde e belle», dice la voce di Pasolini nel documentario di quel sopralluogo, quasi a registrare una dismisura tra le attese collegate a quel così grande evento che fu l’esistenza di Gesù e il luogo che ne fu teatro terreno.
Anche questa riflessione può aiutare a cogliere il rapporto che il regista ebbe con la scelta dei Sassi, rioni perduti e negletti, da poco tagliati fuori dalla storia e da qualsiasi possibilità di trasformazione che includesse le persone stesse che li avevano abitati. Come dunque non vedere in quella scelta, certo strumentale e neppure originale (in altre occasioni i Sassi erano stati lo scenario di narrazioni cinematografiche), anche un gesto che si sarebbe proposto come promessa di riparazione e di rilancio, nel futuro, di una parte di storia e di patrimonio?
Circolando per le sale delle varie sezioni in cui la mostra è composta, il visitatore troverà assai più cose da verificare, che corrispondono a tante occasioni di cui giovarsi. Perché la mostra rende anche, in modo accentuato, un’immagine sensibile di quanto un’operazione culturale prenda piede e rilievo, accrescendosi di significato, da un insieme eterogeneo di elementi: non solo quelli che, anche indirettamente, concorrono nel progetto e nella realizzazione di un’opera ma anche quelli che ad essa si affiancano ed aggiungono, come ad espanderla e a modificarla.
La sezione dedicata allo sperimentalismo e alla neoavanguardia (Gruppo Uno e Gruppo 63), benché Pasolini non avesse mai dato segni di entusiastica affinità con quelle esperienze artistiche, sottolineano tuttavia che con essi consuonava su un impegno a percorrere un nuovo orizzonte progettuale in cui diverse materie, diversi strumenti e diversi dispositivi sensoriali concorressero a produrre un nuovo spazio estetico.
E in fondo la scelta di rendere il percorso della mostra molto interattivo, con voci narranti nelle sale, dispositivi ottici e materiale consultabile in autonomia, non risponde soltanto a un bisogno di intrattenimento. Sembra anche voler rappresentare la maniera multimediale e multisensoriale con la quale fruiamo e sempre più fruiremo ogni attività culturale.