Ogni settimana, Madame Descoings puntava tre numeri alla lotteria. Sempre gli stessi. Con immutata ostinazione, la signora non mancava un colpo poiché – scrive Balzac, ne La Rabouilleuse – per nove anni uno di quei numeri «era rimasto sul fondo di tutte le ruote, da che la lotteria era stata inventata». Lo si doveva estrarre, quel numero, liberarlo, riportarlo al mondo considerando che non usciva dall’annus horribilis 1789.

Dal 1789, dunque, dei numeri di Madame Descoings non si vedeva traccia. Non era un’invasata, né un’indovina, ma una donna qualunque persa in una provincia qualunque, schiava di un gioco qualunque. Una donna senza qualità in un mondo che di qualità ne aveva ancora meno. La «povera donna» – così la qualifica, quasi scusandosi, Balzac – arrivava persino a dubitare «dell’onestà dell’amministrazione e accusava il governo, credendolo capace di togliere dall’urna quei tre numeri, per indurre chi puntava su di essi a moltiplicare furiosamente le proprie giocate».

Apparso senza grande successo tra il 24 febbraio e il 4 marzo del 1841 su «La Presse», originariamente col titolo Les Deux Frères, La Rabouilleuse di Balzac si colloca su un fronte critico rispetto a una Rivoluzione che – nello spazio-tempo del romanzo, ambientato tra il 1792 al 1830 – si rivela ben presto una conquista non dell’uguaglianza, non della libertà, non della fratellanza, ma dei mezzi sui fini. Una rivoluzione del denaro, della Borsa e del gioco che in qualche modo, per Balzac, sancisce l’ingresso dell’azzardo nel ritmo della vita quotidiana. Non per caso, come attestato dal senso e dal parlare comune, «Bourse» divenne proprio allora un modo gergale per indicare la lotteria. Finanza e gioco erano solo i due volti di un azzardo che piegava il mondo alle proprie istanze. Nel 1719, tra le pagine del suo The anatomy of exchange Allen, Daniel Defoe – un altro romanziere nelle vesti dello speculatore tradito – d’altronde già scriveva: «la speculazione (stock-jobbing) è un gioco. Una scatola con dei dadi può essere meno pericolosa, ma la sua natura rimane la stessa: l’azzardo».

La febbre del sistema

Il coup de dés della Rivokuzione per la Madame Descoings di Balzac era oramai solo un mito dimezzato, un grande evento depotenziato interiormente più che dai suoi nemici dai «falsi amici» della logica monetaristica simboleggiata dagli assignats (titoli di Stato poi usati in funzione di carta moneta) e dal gioco d’azzardo, inteso qui nella forma prima tipica e poi idealtipica del biglietto di una lotteria o nel lotto di Stato.

Per ironia della sorte, proprio nell’anno della Rivoluzione un libraio parigino, Barrois l’aîné, dava alle stampe un durissimo pamphlet di quarantasette pagine, titolato Des loteries. A firmarlo era il vescovo di Autun, che altri non era se non il futuro architetto dell’Impero, quel Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord che, maestro imperterrito di cerimonie, passando indenne dall’Ancien Régime al colpo di Stato di Napoleone Bonaparte fino al Congresso di Vienna, traghetterà l’Europa verso scenari di futuri equilibri di potenza. Nell’ivresse del gioco, ben al di là di un semplice fattore di corruzione dei costumi o di febbre momentanea del sistema, Talleyrand, autore solitamente parco nella scrittura, persino deludente quando si tratterà di confessarsi tra le pagine delle sue memorie, vede dell’altro. E quest’altro è una corrosione interna del lavoro, attraverso il gioco d’azzardo pubblico – che egli coglie, al tempo stesso, come moltiplicatore di povertà e acceleratore dei processi erosivi dello spirito delle leggi.

Il gioco, scrive Talleyrand, induce a consumare senza produrre. Una tesi, questa, ripresa molti anni dopo anche da chi definirà il lotto e la lotteria come la più immorale fra le tante imposte dello Stato. La più immorale, ma di certo la più efficace. Già nel 1772, nel trentunesimo capitolo delle sue Meditazioni sull’economia politica, sottoponendo a vaglio critico le forme della tassazione, Pietro Verri scriveva che «fra gli spontanei tributi il primo di tutti si è il tributo delle lotterie». Pur criticando non la lotteria in sé (il termine in Verri connota ciò che oggi i codici chiamano «gioco pubblico»), ma solo quelle non fondate «su un’equa proporzione tra l’utile e l’azzardo», Verri concentrò le proprie critiche su quello che gli parve un residuo di tempi bui e passati, una sorta di scheggia conficcata nella ragione, che la Ragione avrebbe presto estirpato. Ma si sbagliava.

La corruzione del popolo

Per l’economista e filosofo milanese alcune, ma solo «alcune lotterie nascondono una tale ingiustizia, che se questo genere di tributo non ci fosse trapassato per tradizione dal secolo scorso, tanta è l’umanità che presentemente regna in Europa, tanti progressi ha fatti la ragione universale, tanto luminosamente si conosce l’unione che passa fra gli interessi pubblici e la tutela del più minuto popolo, che io ardisco credere che ne sarebbe rifiutato il progetto se ora fosse per la prima volta proposto». Dove il Verri non si sbagliava, però, era nel computo delle conseguenze, per quel «minuto popolo» costituito da salariati e basso volgo, illuso e deluso dal gioco. Scrive ancora il Verri: «Il più minuto popolo, che non è né può mai essere generalmente un profondo calcolatore, viene deluso con gigantesche e chimeriche speranze d’una difficilissima fortuna, alla quale le più povere famiglie dello Stato sacrificano il letto, il vestito della moglie e de’ figli, riducendosi all’ultima miseria e disperazione. La superstizione, i sacrilegi, i furti, le prostituzioni e il mal costume di ogni genere viene promosso da questa classe di tributo spontaneo, per cui all’uomo più virtuoso dello Stato, al padre del popolo, al legislatore si fece vestire talvolta il carattere della seduzione».

Attraverso un «contratto sproporzionatissimo», l’azzardo satura lo spazio, erode il tempo. E quel tempo, cavo all’interno, spinge il corpo sociale sul ciglio di un baratro da cui difficilmente può fare ritorno. Il gioco d’azzardo, coniugato alle supposte virtù di Stato, è un demone – così scriveva ancora una volta Balzac. Balzac che, da parte sua, non dimenticava di richiamarsi a Jean-Jacques Rousseau, il cui pensiero, espresso nel Libro IV dell’Emile, sintetizzava così: «Posso capire che un uomo sia attratto dal gioco, ma solo quando tra lui e la morte non resta altro che l’ultimo centesimo».

Introdotta in Francia il 30 giugno del 1776, con un decreto che tutte le integrava tutte nella Loterie Royale de France, la lotteria cesserà di esistere in questa forma il 15 novembre del 1793, dopo che il procuratore generale della Comune, Pierre Gaspard Chaumette, aveva invocato a gran voce la sua soppressione dinanzi all’Assemblea. «La lotteria di Stato», gridò allora Chaumette, «è un fiume inventato dal dispotismo per annegare il popolo sulla sua miseria, ingannandolo con una speranza che aggrava la sua disgrazia». Ma il 30 settembre 1797, esattamente tre anni anni, dieci mesi e quindici giorni dopo queste parole, la lotteria rinacque dalle proprie ceneri, per ben più prosaiche ragioni di «cassa».

Avviato nel 1790, il dibattito sulla soppressione della lotteria nazionale non avrebbe avuto alcun esito, se non vi fosse stata una serie di fortuite circostanze, che di fatto spostarono altrove l’attenzione comune, nonostante l’abolizione del monopolio sul tabacco (1791) avesse spianato la strada a provvedimenti abolizionisti. Il 16 ottobre 1793, era sta ghigliottinata la Maria Antonietta: proprio questo permise alla fronda degli abolizionisti di far passare quasi sottobanco un provvedimento fortemente avversato, facendolo accogliere dal deputato Thuriot che ne decretò – dopo le perorazioni di Chaumette – la morte apparente.

Un legame perverso

Sempre, nei periodi di crisi, emerge il legame perverso tra esigenze di erariali, imposizione regressiva (chi meno ha più paga) e azzardo. Proprio qui si innesta il discorso di Talleyrand: la lotteria rappresentava un vulnus radicale nell’ordine delle cose pubbliche, un asservimento volontario misto di sonnambulismo e delirio: «la lotteria può essere considerata come imposta libera e volontaria. Ma come è strana la libertà quella che supponiamo esista tra queste bombe seducenti».

Tutto il dibattito su proibizionismo o antiproibizionismo nell’azzardo di massa ancora oggi poggia su questa illusione di libertà, laddove sappiano esserci solo seduzione (che i tecnici preferiscono chiamare addiction) che vizia alla radice ogni libertà di scelta, pur lasciandone intatta l’apparenza. Al presunto disincanto del moderno, l’azzardo contrappone un incanto minuto, quotidiano, un’illusione di sovranità popolare che si consuma nell’attimo stesso in cui si infiamma. Il gioco in mano pubblica è questa fiamma e questa illusione. La lotteria come modello di questo azzardo di massa, scrive Talleyrand, insinua nelle menti di tutti un tarlo destinato in breve a divorarsi il corpo sociale, dopo averlo inebetito e condotto all’inerzia. La lotteria è per lui una sorta di solvente che disperde la speranza del povero e innalza il fervore del ricco. Singolare inversione delle parti, tra cause, pregi, difetti e effetti, se è vero che la prima lotteria storicamente attestata in terra di Francia venne istituita da Francesco I con l’Editto di Châteauregnard del 21 maggio 1539.

L’intenzione esplicita del sovrano era di attenuare il fervore dell’azzardo e, come si legge nel testo, «pour porter remède aux jeux dissoluts». Due secoli dopo, il nesso tra sovranità e azzardo si mostrerà in tutta la sua tenace resistenza, riuscendo a transitare anche nei giorni istituzionalmente più tempestosi. Della Grande Loterie Royale di Luigi XIV, in quegli stessi giorni il Mercure de France scriveva: «il termine lotteria è oggi un affare di Stato. È un idolo che ha i suoi templi, i suoi preti, i suoi adoratori, i suoi giorni soletti. Annuncia le sue concessioni nel frastuono delle bande militari, tra corone inghirlandate e tavolacci, dove sono disposti i suoi oracoli».

L’erario antiproibizionista

Nel suo libello, Talleyrand ricorda come, tra il 1776 e il 1789, le entrate fossero aumentate costantemente, passando da 6 a 11 milioni. A tanto ammontavano gli incassi della Loterie Royale di Francia, fotografate un istante prima della catastrofe del 1789, che fece piangere leggermente il banco, portandolo a 8 milioni. Sotto il Direttorio, il 9 vendémiaire dell’anno VI (30 settembre 1797), l’assemblea legislativa del Conseil des Cinq-Cents riabilitò la lotteria. La sua rete di ricevitorie – centocinquanta nella sola Parigi – riprese a funzionare a pieno regime. Una rete che Napoleone Bonaparte, giunto al potere con il Colpo di Stato di due anni dopo, dovendo riorganizzare l’assetto fiscale del paese, trovò a propria completa disposizione, affidando la gestione delle lotterie a Jean-François Carteaux, generale oltre che pittore con non poche velleità. Posto al vertice della Loterie nationale, da parte sua Carteaux non farà che ampliarne l’etensione territoriale. Un’estensione favorita anche dall’uso di un nuovo mezzo di trasmissione: il telegrafo ottico di Chappe.

Nella Francia del XIX secolo, in piena fase rivoluzionaria, il telegrafo di Chappe costituisce forse l’antecedente principale del web, nell’archeologia dell’azzardo di massa. La prima linea aerea di trasmissione telegrafica, come internet inizialmente relegato nello spazio angusto dei soli «fini militari», venne installata col benestare della Convenzione nel 1793 e collegava Parigi a Lilla.

La proposta fatta da Chappe a Napoleone prevedeva l’uso a fini «civili» del suo telegrafo, ma il console rispedì al mittente l’idea di mettere a disposizione di industriali e commercianti la rete. Lo stesso fece con la proposta di lanciare telegraficamente una gazzetta. La sola applicazione civile accolta fu quella della trasmissione dei numeri estratti al lotto. Le entrate di lotto e lotteria aumentarono rapidamente, passando dai sette milioni di franchi del 1805, ai diciannove del 1807. Ma Chappe non poté assistere a questa rifioritura del gioco di Stato alla quale aveva prestato la propria opera. Morì infatti suicida, gettatosi dalla stanza di un albergo parigino, il 23 gennaio 1805. Anche lui vittima dell’azzardo di Stato.