Mentre Israele si sta preparando all’invasione terrestre di Rafah, novantasei città spagnole questo fine settimana stanno protestando contro il genocidio che continua a essere perpetrato in Palestina. Le proteste le ha organizzate Rescop (Rete solidaria contro la occupazione in Palestina), una rete di organizzazioni fondata nel 2005 che chiede il boicottaggio di Israele e soprattutto di fermare il commercio delle armi che molti stati europei, tra cui anche la Spagna, continuano a vendere a Tel Aviv.

Tra ieri e oggi previste un centinaio di concentrazioni in tutte le province spagnole – e non solo – al grido di «Fermiamo il genocidio in Palestina, fine del commercio di armi e delle relazioni con Israele, libertà per i prigionieri e le prigioniere palestinesi». È, come dicono gli organizzatori, «una risposta collettiva» contro la barbarie.

SI TRATTA della quarta mobilitazione di questo tipo. Si stima che in Spagna, circa il 5% della popolazione è di religione musulmana (due milioni e mezzo di persone) e il legame culturale con la sofferenza della popolazione palestinese è condiviso dalla società e da un amplio spettro politico. L’unico partito che appoggia senza remore il genocidio in Palestina è Vox; il Partito popolare, anche se un po’ ondivago, storicamente ha appoggiato la soluzione dei due stati.

Il presidente del governo Sánchez ha annunciato più volte negli ultimi mesi che la Spagna sarà uno dei primi paesi europei a riconoscere lo stato palestinese. Ma gli organizzatori delle manifestazioni chiedono più coraggio: secondo Rescop, il governo «continua a non fare nulla». Spiegano che tre mesi dopo la decisione della Corte internazionale di giustizia di proteggere la popolazione palestinese contro un possibile crimine di genocidio, «né l’Unione europea, né il governo spagnolo hanno fatto nulla per implementare la decisione della corte».

Chiedono soprattutto un embargo alla vendita di armi che, dicono, «non è una scelta, è un obbligo di tutti gli stati». E denunciano che nel novembre 2023, con l’operazione nella Striscia in pieno svolgimento, «la Spagna fu lo stato dell’Unione europea che ha esportato più armi in Israele». Il governo «aveva l’obbligo di rescindere le licenze di esportazione e non l’ha fatto», scrivono.
Sono necessarie «misure concrete, immediate ed efficaci contro il genocidio nella Striscia di Gaza, l’occupazione, l’apartheid, la pulizia etnica e il colonialismo».

E AL GOVERNO spagnolo chiedono non solo di porre fine alla vendita di armi e di mettersi a capo di un movimento internazionale per un cessate il fuoco, ma anche di appoggiare la denuncia del Sudafrica contro Israele per genocidio davanti al Tribunale dell’Aja, di rompere le relazioni diplomatiche, istituzionali, economiche, sportive e culturali con Tel Aviv, di sanzionare le imprese complici dell’occupazione e infine di recuperare la giurisdizione universale (introdotta da Zapatero e poi fortemente ridimensionata da Rajoy), che permette di perseguire i crimini contro l’umanità in tutto il mondo.

Nella stessa linea vanno le richieste dell’ex sindaca di Barcellona Ada Colau, che oggi si imbarca sulla Flotilla che da Istanbul cercherà di raggiungere Gaza infrangendo il blocco in vigore da 18 anni. In una lettera molto emotiva in cui spiega che dovrebbero essere gli stati a portare le 5.500 tonnellate di aiuti umanitari, chiede a Sánchez l’interruzione delle relazioni con lo stato di Israele, lo stop al commercio di armi, sanzioni economiche e la protezione della Flotilla. E conclude: «I nostri figli e le nostre figlie ci guardano: diamo loro il buon esempio. Dimostriamo che non solo siamo capaci di denunciare l’ingiustizia, ma anche di agire per fermarla».