Non c’è posto più bello della mia casa ripeteva la Dorothy del Mago di Oz: era il mantra che sbattendo le sue magiche scarpette rosse le avrebbe permesso di tornare in Kansas dal regno fatato di Oz.
«Non c’è posto sulla terra più bello di questo», riflette invece una donna siriana prima di abbandonare la sua città, a cui non sa se farà mai ritorno: Aleppo. Proprio nei giorni in cui l’assedio della città siriana raggiungeva il culmine della violenza, al Torino film Festival nella sezione TFF doc è stato premiato come miglior documentario Houses Without Doors di Avo Kaprealian, regista siriano di origini armene che ha testimoniato finché ha potuto la progressiva distruzione fisica e morale della sua città.

 

 

 

 

Dalle finestre del suo quartiere, al-Midan, a Ovest di Aleppo, Kaprealian osserva le strade, «spia» dentro le case dei vicini: siamo nel 2012 e mentre a Damasco già si combatte ad Aleppo la vita sembra scorrere normalmente. Il «voyeurismo» di Houses Without Doors non serve però a svelare un crimine come in La finestra sul cortile ma registra il momento in cui la guerra civile si impadronisce della città e della sua vita. Le strade, dove cominciano a sentirsi gli spari, diventano sempre più deserte, le scuole chiudono, gli edifici vengono distrutti, alla fine neanche le piante riescono a sopravvivere: «Gli alberi ingialliscono – dice una donna affacciata al balcone – A causa della guerra anche loro sono invecchiati».

 

 

 

 

Protagonista del film non è però solo il qui e ora di Aleppo, ma anche il passato della città, la sua storia e in particolare il suo essere stata un rifugio per gli armeni in fuga dalla pulizia etnica dell’impero ottomano nel 1915. «Il mio quartiere un tempo era un campo di rifugiati armeni – racconta infatti il regista – quindi per me al-Midan non era un luogo qualsiasi ma aveva un valore simbolico. Rappresentava la Storia».
Il film istituisce così un parallelo tra il genocidio degli armeni e la guerra civile siriana, e una riflessione sulle vicende umane e sul loro ripetersi ma anche sulla storia del cinema. Che entra nel documentario non solo attraverso le citazioni, ma anche e soprattutto con dei frammenti di film che raccontano proprio il genocidio e la diaspora armena: Meyrig (’91) di Henri Verneuil, storia di una famiglia armena emigrata a Marsiglia e Avetik di Don Askarian(’92).

 

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La prima e l’ultima sequenza di Houses Without Doors vengono invece da El Topo di Alejandro Jodorowsky, e rappresentano il rapporto tra il misterioso cowboy protagonista e suo figlio, piccolo e nudo, destinato a perdere presto l’innocenza. Come i bambini di Aleppo, che Kaprealian osserva giocare alla guerra nelle loro case mentre fuori si combatte, e che «intervistati» su cosa sia la guerra rispondono: «Attaccarci la notte e distruggere le nostre case».

 

 

Come è nata la decisione di riprendere quello che stava accadendo ad Aleppo?
Non è stata una decisione vera e propria. Nel 2011 vivevo a Damasco, ma all’inizio dei movimenti antigovernativi ho deciso di tornare ad Aleppo. Ho ripreso ciò che succedeva in città per tutto il 2012: eravamo agli inizi della rivolta, e ad Aleppo tutto era stranamente calmo. Cercavo di capire perché la gente fosse in qualche modo lontana da ciò che stava accadendo nel resto del Paese: volevo costruire una riflessione sulle persone che come me vedevano ciò che stava accadendo, ma senza agire. Sapevo di essere alle porte di una catastrofe, che presto la Siria sarebbe stata inghiottita dalla guerra. Era già successo in Libano, in Iraq – dove la guerra è ancora in corso – e sapevo che a breve sarebbe toccato a noi. Ho acceso la mia telecamera per testimoniare gli eventi, ma contemporaneamente il mio pensiero andava alla Storia: a quella delle guerre, delle rivoluzioni e anche del cinema.

 

 

 

 

Il film suggerisce infatti un rapporto tra ciò che sta accadendo in Siria e il genocidio armeno del 1915.
Il motivo per cui ho istituito questo parallelo è che volevo riflettere sul concetto di Storia; il genere umano sembra ripetere sempre gli stessi errori. Nel 1915 noi armeni volevamo libertà e indipendenza. Tantissime persone hanno cominciato ad agire e in risposta l’impero ottomano ha attuato una pulizia etnica con la «copertura» fornitagli dalla prima guerra mondiale che si combatteva quegli anni. Allo stesso modo oggi i paesi europei ma anche gli Stati Uniti sono rimasti a guardare. E la Turchia, a cui molti siriani guardavano con speranza, ha abbandonato Aleppo: per quanto mi riguarda niente è cambiato dai tempi dell’impero ottomano. All’epoca non c’erano gli strumenti forniti adesso dai media ma per me – e per tanti altri – il genocidio armeno è qualcosa che è si è impresso nella nostra memoria storica anche se non ci sono tante fotografie o documenti che lo testimoniano.

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In «Houses Without Doors» ci sono inserti di altri film, tra cui «El Topo» di Jodorowsky. Come mai?
I materiali che ho usato nel mio film provengono soprattutto da film narrativi, in questo modo ho cercato di riflettere sulla differenza tra realtà e finzione» dice Kaprealian. Jodorowsky è stato sempre un uomo, una mente e un filmmaker libero. Con El topo ha realizzato una sorta di «Eastern Western», un western orientale, ha provato cioè a fondere il pensiero orientale con la figura del cowboy. C’è anche un riferimento alla natura surreale della vita umana che si ripete continuamente. In Houses Without Doors ho inserito due scene che riguardano il rapporto tra generazioni. Il figlio del cowboy protagonista di El topo imita le azioni del padre. Anche in Siria i bambini vengono educati alla guerra: su internet si trovano tantissimi video dell’Isis che li addestra. È un movimento circolare di generazioni che si susseguono e sembrano destinate a fare la stessa cosa. Nel finale invece ho utilizzato la scena più sanguinaria di El topo, perché non volevo che ci fosse del vero sangue nel mio documentario: non voglio «usare» il sangue di esseri umani in un film da proiettare nei festival. Mostrare la morte è un gesto molto potente ma comporta una responsabilità altrettanto grande.

 

 

 

 

Mentre parliamo il mondo intero assiste alla distruzione di Aleppo.
Credo che una delle colpe della comunità internazionale sia stata di parlare solo di Aleppo Est. Negli anni che ho passato in città ho perso molti amici e parenti, ho visto tantissima gente morire anche ad Aleppo Ovest. Per questo mi sono concentrato sul quartiere di al-Midan che pure si trovava nella parte di Aleppo controllata dal regime: tantissimi civili innocenti sono morti anche lì. Se si vuole fare qualcosa di utile bisogna guardare al quadro complessivo, mentre alcuni media si concentrano solo sull’Isis, altri sul regime di Assad, e come conseguenza la popolazione viene sempre più divisa.