«Si sta frantumando davanti ai nostri occhi l’ultimo muro rimasto al mondo», osserva un giornalista televisivo davanti alle celebri immagini della folla che fa letteralmente a pezzi il muro di Berlino nel 1989.
È la sequenza che apre Walls, il documentario di Pablo Iraburu e Migueltxo Molina in programma ieri al Festival dei Diritti umani di Lugano, cominciato il 5 ottobre e che durerà fino a domenica. Subito dopo le parole di speranza legate al crollo del confine che aveva diviso a metà il cuore dell’Europa, però, Walls ci mostra le immagini di uno dei muri più noti ancora tristemente in piedi, e anzi oggetto privilegiato della campagna reazionaria di Donald Trump: quello che divide Stati Uniti e Messico.

I confini e il loro attraversamento – all’indomani del referendum ungherese per rifiutare le «quote» di migranti stabilite dall’Unione Europea – sono giustamente tra i protagonisti del Festival svizzero dedicato ai diritti umani – «pensato invece per costruire ponti» osserva Olmo Giovannini, co-direttore insieme ad Antonio Prata – giunto alla sua terza edizione. Quest’anno, spiega Giovannini, «uno dei fili rossi principali è però dedicato alla musica, come forma di espressione artistica e personale». È il caso, ad esempio, del film They Will Have to Kill Us First di Johanna Schwartz, incentrato sui musicisti del Mali, vittime della repressione dopo che nel loro paese è stata istituita la legge della Sharia.

Walls ci porta invece lungo i due confini contrapposti tracciati da alcuni dei muri che impediscono il libero movimento delle persone: quello tra Usa e Messico, tra Marocco e l’enclave spagnola di Melilla, tra Zimbabwe e Sudafrica. Ma avrebbero potuto essere anche altri muri, tra le centinaia che esistono e ancora vengono costruiti nel mondo, spiegano i due registi nei titoli di coda.

Su tutti quello che ha fatto di Gaza la più grande prigione a cielo aperto del pianeta, che appare nel film attraverso il telegiornale guardato da uno dei protagonisti: un anziano statunitense che dissemina di bottiglie d’acqua il deserto attraversato giornalmente da centinaia di messicani, perché non tollera – dice – l’idea che muoiano di sete. In Sudafrica invece un gruppo di migranti dello Zimbabwe riusciti a entrare nel paese mette in scena per i loro connazionali una scenetta teatrale, che racconta proprio le peripezie dell’attraversamento del confine: «Perché attraverso il teatro è più facile comunicare» spiega uno degli attori. Così come il cinema è un mezzo privilegiato per «amplificare la comprensione di questi temi», osserva ancora Olmo Giovannini. «Il nostro intento è destare attenzione nei confronti dei diritti umani, soprattutto fra i più giovani, cercando di non impartire lezioni ma di stimolare il dibattito, previsto dopo ogni proiezione».

La suggestione del territorio protetto da mura torna anche in City 40, altro documentario in programma (disponibile anche su Netflix) di Samira Goetschel che racconta la storia della città – Ozersk, Russia – luogo di nascita del programma nucleare sovietico nel 1945, anno in cui la città venne edificata copiando i piani della sua «gemella» americana: Richland (Washington) nata attorno alla fabbrica nucleare di Hanford.

Un cartello posto all’ingresso di entrambe le cittadine avvisa i residenti che i «pettegolezzi» fanno il gioco dei nemici della patria: in City 40 gli abitanti di Ozersk raccontano infatti di come i funzionari governativi, in piena guerra fredda, gli imponessero di non rivelare mai la propria provenienza. Una città proibita, ancora oggi protetta dal filo spinato e divisa da ulteriori confini che prolificano al suo interno a protezione delle zone più sensibili come proprio la centrale di Mayak intorno alla quale la città è sorta e in cui si trova la quasi totalità del materiale nucleare russo.

Ozersk, luogo figlio della guerra fredda ancora avvolto nella propria impenetrabilità – è così simbolo di un passato che non passa, il monumento di una frattura che rivela la natura illusoria delle previsioni entusiaste che si erano diffuse dopo la caduta del muro di Berlino.