L’originale giusto trentanove anni fa incollava sul network Abc 80 milioni di americani, aggiudicandosi poi 9 Emmy Awards e un Golden Globe. L’Italia non fu da meno, in 11 milioni su Raiuno a seguire le vicende della saga tratta dal best seller di Alex Haley dove venivano ripercorsi dal 1750 duecento anni di una famiglia africana e del suo capostipite Kunta Kinte (LeVar Burton), strappata dal villaggio d’origine in Zambia per essere ridotta in schiavitù nelle piantagioni della Virginia.

Radici ritorna ora sul piccolo schermo – presentato in anteprima al RomaFictionFest (iniziato il 7 dicembre, si concluderà domenica) – su History (canale 407 di Sky) dal 16 dicembre per quattro puntate di due ore ciascuna.
Un sequel – per la precisione il terzo, perché nel 1980 sull’onda del successo la Abc ne commissionò una seconda serie altrettanto popolare e con un cast che annoverava fra gli altri Henry Fonda e Marlon Brando. Ma la scelta degli attori è stellare anche qui, con il premio Oscar Forest Whitaker, Laurence Fishburne, Anna Paquin e Jonathan Rhys Meyers. Rispetto all’originale, la versione 2016 applica un realismo maggiore, dialoghi serrati si alternano a scene di efferata violenza e una ricostruzione storica decisamente più dettagliata.

Meno soap – a volte un po’ lacrimosa – e più azione. «Sono passati quarant’anni – sottolinea LeVar Burton, primo Kunta Kinte e ora nelle vesti di produttore esecutivo – e noi abbiamo avuto la possibilità di sfruttare delle borse di studio che non erano disponibili nella prima serie quando Haley ha fatto le ricerche.
Allora si era immaginato che il villaggio d’origine di Kunta Kinte fosse molto piccolo, in realtà era un importantissimo centro commerciale, c’erano gli olandesi e sappiamo anche che la famiglia mandingo utilizzava cavalli».

Per Malachi Kirby, inglese: «Ma il mio Dna – spiega – è per il 75% proveniente dall’Africa occidentale», noto per ruoli nella soap EastEnders e in Doctor Who, non è stato facile calarsi nei panni del protagonista: «Sentivo come una sorta di senso di inadeguatezza, non pensavo di essere all’altezza per interpretare questo ruolo. Poi ho capito l’errore: io dovevo essere un semplice strumento, un tramite per raccontare l’esperienza e la sofferenza di Kinte e far comprendere il suo valore. Anche nelle scene più difficili: la rivolta sulla nave o la scena delle frustate».

I temi di Radici, sottolinea Burton «sono universali» e attuali perché ancora oggi parliamo di schiavitù. E non necessariamente sono ceppi o catene, ma muri e recinzioni o gente gettata in mare proprio come succedeva tre secoli orsono… «Vero – prosegue l’attore americano – la schiavitù non è stata sradicata. Si è solo…adattata ai tempi. È una delle ragioni per cui abbiamo deciso di ripercorrere la vicenda scritta da Haley. La schiavitù in qualche modo era una emigrazione forzata verso l’America, oggi come allora, e quando queste masse di popolazione si spostano a quel punto l’umanità ha una reazione di chiusura, ha paura dell’altro a prescindere da chi sia».
Un anno pesante negli Stati uniti, gli scontri razziali nei ghetti, i ripetuti omicidi della polizia e in una forma diversa, le polemiche degli attori neri contro l’Academy. L’arrivo di Trump alla Casa bianca cosa potrà determinare?