Sola al mondo. Lampedusa è sola al mondo. Così la descrive la scrittrice francese Maylis de Kerangal nel suo reportage letterario sull’isola siciliana edito da Feltrinelli, all’indomani del naufragio del 2013, che ha visto la morte di oltre 300 persone. «Sono ora inchiodata sull’isola di Lampedusa», scrive Kerangal, «come quando ci si fissa su un granello di polvere sul foglio bianco. Ho l’impressione che esista come luogo in un non-luogo, sasso inalterabile emerso contro lo spazio liquido, terra delineata contro il mare indistinto in cui si aboliscono il tempo e la topografia (…)».
Kerangal, tuttavia, non sembra porsi una domanda fondamentale, per cogliere la portata della terra che descrive. Ovvero: cosa vede il sopravvissuto, colui che sbarca sull’isola? La risposta non può che essere semplice, eppure finora mai espressa. Il mondo. Il sopravvissuto vede il mondo; che il mondo, nel bene o male, non è ancora finito. Uno sguardo sul mondo: forse non c’è frase più comune e al tempo stesso più improbabile. Si può fare esperienza del mondo o di un mondo come facciamo esperienza di un dolore o dell’esistenza di un oggetto? Si può guardare qualcosa e ritenere di guardare così un mondo?

Fantasticherie e realtà

La sua singolare esperienza conduce sempre più filosofi a negare la sua esistenza. Addirittura il filosofo Markus Gabriel ha sostenuto che esiste tutto, ma proprio tutto, fuorché il mondo. «Si potrebbe pensare – sostiene Gabriel – che il mondo sia l’ambito di tutto ciò che esiste senza il nostro operare, un ambito che ci racchiude. (…) Ma proprio quest’onnicomprensivo, il mondo, non esiste e non è possibile che esista. Tramite questa tesi generale non solo deve essere distrutta l’illusione che ci sia il mondo, alla quale l’umanità si è attenuta piuttosto ostinatamente. È mio desiderio utilizzarla anche per ricavarne delle conoscenze positive. Poiché io non affermo solo che il mondo non esiste, ma anche che, all’infuori di esso, esiste tutto» (Perché non esiste il mondo, Bompiani).
Se intendiamo il mondo come la totalità capace di contenere ogni cosa, allora tocca dare ragione a Gabriel ed è logico che una tale totalità non possa esistere. Ma il mondo non è mai stato questo. È sempre stato piuttosto la nostra pelle, la nostra stessa esposizione, l’evidenza di una diversità, che proprio l’esistenza delle isole non smette di ricordarci.

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Atlantide

Per secoli, le isole sono state pensate in antitesi alla terraferma, al continente, al mondo stesso. Come un’eccezione rispetto a una regola. Basti pensare a Atlantide, a Utopia, all’isola di Robinson Crusoe, solo per citarne alcune. Questa antitesi si è fatta sempre più acuta nel corso del tempo, al punto da negare l’esistenza del mondo a vantaggio delle isole. Ormai è divenuta celebre una delle tesi dell’ultimo corso di lezioni del filosofo Jacques Derrida: «Non c’è mondo, ci sono solo isole» (La bestia e il sovrano, Jaca Book).
A ben vedere, però, le isole non solo non si rivelano in opposizione al mondo, ma si mostrano come un’intensità del mondo stesso. La possibilità di un’isola è sempre la possibilità di un mondo.

Un’arca ritrovata

Il filosofo Gilles Deleuze, in suo testo giovanile, L’isola deserta e altri scritti (Einaudi) non a caso mai pubblicato in vita, si rivela probabilmente l’unico filosofo ad aver legato l’isola alla possibilità di un mondo, soprattutto alla possibilità che il mondo non finisca, addirittura attribuendole un potere «arcaico», originario, nel senso però dell’origine seconda, del ricominciamento. L’isola vista come «arca» del mondo: «Sognare le isole, non importa se con angoscia o con gioia, significa sognare di separarsi, di essere già separati, lontani dai continenti, di essere soli e perduti – ovvero significa sognare di ripartire da zero, di ricreare, di ricominciare (…) L’isola è il minimo necessario a questo ri-cominciamento, il materiale sopravvissuto della prima origine, il nocciolo o l’uovo irradiante che deve essere sufficiente a ri-produrre tutto. (…) L’arca si ferma sull’unico punto della terra che non è stato sommerso, luogo circolare e sacro da dove il mondo ricomincia. È un’isola o una montagna, le due cose insieme, l’isola è una montagna marina, la montagna, un’isola non ancora bagnata. Ecco la prima creazione presa in una ri-creazione, concentrata in una terra santa in mezzo a un oceano».
Gli esseri umani, che non potrebbero esistere senza un mondo, senza la possibilità di un mondo, sono legati, dunque, alla dimensione dell’isola.

Al punto tale che si può certamente affermare che noi stessi siamo fatti della stessa forma delle isole. Il legame tra ciò che proprio dell’uomo e la dimensione dell’isola viene alla luce, del resto, alla più semplice riflessione sul loro legame. Così, ad esempio, Kerangal scrive: «Le isole sono come le idee. Deserte, affascinanti. Operano come riserve, catturano le storie e danno riparo agli uomini sin dalla creazione del primo poema».
La forma dell’isola provoca il nostro pensiero e il nostro desiderio, perché essa è la forma per eccellenza, la «forma della forma». «Pensate a quelle isole – ha scritto Jacques Lacan – di cui vedete la pianta sulle carte marittime. Non è rappresentato in nessun modo ciò che c’è sull’isola, ma solamente il contorno. Ebbene, è la stessa cosa per gli oggetti del desiderio in tutta la loro generalità». Dinanzi all’isola l’uomo vede ciò che lo anima, ciò che egli stesso è: qualcosa di separato. Egli vede ancora la forma di tutto quello che si agita in lui, il movimento del pensiero stesso.
Tutti pensiamo. Raramente però ci soffermiamo su questa operazione, che a rigore non sarebbe nemmeno giusto definire nei termini di una semplice operazione.

Raramente ci soffermiamo, dunque, su quello che accade. Appena pensiamo qualcosa è come se la estraessimo dal mondo, se la salvassimo dalla totalità. Estrarre, però, non è la parola giusta. Pensare qualcosa significa, infatti, isolarla, separarla e la nostra «anima» diventa il mare che la circonda. Pensare è isolare. Pertanto, per il fatto stesso di essere pensata, ogni cosa assume la forma di un’isola. Questo però vuol dire anche che ogni cosa, in tal modo, non diventa solo sé stessa, ma viene accompagnata da un elemento separatore.
Questo vuol dire isolare: legare qualcosa a un elemento separatore. Quando pensiamo, l’elemento separatore, il mare, siamo noi stessi e tutto ciò che ci popola, ci assilla, ci infesta l’anima.

Una separazione

Ecco ciò che in fondo è un’isola: essa non sarebbe tale senza il mare, senza una forza alla quale si accompagna e capace di separarla. Nessuna isola, dunque, è solo e semplicemente un’isola. Essa è tale perché si accompagna a una forza, a un elemento separatore, capace di distinguerla.
Queste forze, questi elementi separatori (il mare, l’anima, etc..) a loro volta, se presi in considerazione, pure si presentano come «isole»: l’anima, ad esempio, nel momento in cui cade sotto la nostra attenzione (si pensi, ad esempio, a ciò che accade nel ritratto) pure si presenta come qualcosa di distinto, di separato: al mondo, per noi, ci sono solo isole.

Non si danno, però, «isole assolute». Ovvero tutto quello che la nostra tradizione di pensiero ha inseguito: nella speculazione filosofica come nelle produzioni tecniche. L’isola come sogno di purezza. Sogno che dimentica che, invece, isola è tutto ciò che può essere raggiunto. Secondo il filosofo Peter Sloterdijk, siamo di fronte all’isola assoluta, o al tentativo di crearla, quando viene radicalmente sostituito l’elemento circostante: sottomarini, aerei, stazioni spaziali sono per il filosofo delle isole assolute (Sfere, Raffaello Cortina).

Essere fuori di sé

Tuttavia, tali isole non sono affatto «assolute», separate in modo radicale dal loro ambiente o da un ambiente. Lo sono in linea di principio, soprattutto per la loro tensione a considerare che fuori non vi sia «niente», capace magari di intaccarle: ma non potremmo sbagliarci di più. Se l’essere umano è soprattutto un essere in relazione, l’isola ci spinge, allora, a considerare la relazione primitiva, originaria, che viene dalla separazione, ovvero da ciò che sembra mettere in questione la relazione stessa. Secondo il filosofo Jean-Luc Nancy, infatti, la realtà dell’isola consiste soprattutto nei suoi rapporti: «si parte, ci si viene. Essa si invita da sola ad attraversare il mare che la circonda, a toccare altre terre. L’esposizione – l’essere fuori di sé – costituisce la verità dell’isola» (Pensare il presente, Cuec).

Non si dà relazione – e relazione nella sua intensità – se non a partire, dunque, da una separazione che l’isola incarna. In quello che a ragione viene considerato il capolavoro nascosto di Heidegger, il filosofo parla dell’isolamento come di un concetto fondamentale, alla base del nostro essere e soprattutto del nostro essere in relazione: un «divenir-soli nel quale soltanto ogni uomo giunge alla vicinanza essenziale di ogni cosa: in prossimità del mondo» (Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, Il Melangolo). Per Heidegger il diventare soli, il considerare fino in fondo questa separazione, permette di prendere in esame il legame fondamentale con il mondo, con la sua intensità, per come ora viene alla luce: la distinzione stessa.

8 – continua

  • (Il presente testo fa parte di una ricerca in corso dell’autore, docente di estetica e filosofia, sul tema dell’isola, che sarà pubblicata in autunno per Diogene Edizioni. Si tratta di un vero e proprio elogio dell’isola, come dimensione fondante del nostro stare al mondo e pensata attraverso tutte le sue possibili declinazioni, dal corpo all’immagine, dalla moda all’architettura, con gli strumenti della filosofia classica e contemporanea).

Le altre pagine di Per terra e per mare uscite:

1 – Iain Chambers, La schiavitù galleggiante

2 – Marco Bascetta, Il naufrago testimone

3 – Giuliana Misserville, Liquide sponde di piacere

4 – Angelo Arioli, Un miraggio all’orizzonte

5 – Laura Fortini, Un apprendistato di lotta e grazia

6 – Michela Pasquali, I giardini fluttuanti

7 – Andrea Capocci, Il business genealogico