I «voucheristi» sono la terza generazione del precariato. Un milione e 392 mila persone che nel 2015 hanno lavorato con i buoni per il lavoro accessorio. Hanno guadagnato in media 633 euro in un anno. Solo lo 0,4%, pari a circa 5 mila persone, ha guadagnato oltre i 5 mila euro. Le donne rappresentano il 52% del nuovo proletariato intermittente. I numeri assoluti sono impressionanti e rivelano il lato oscuro della propaganda renziana sui numeri del Jobs Act: nel 2015 sono stati venduti 114 milioni 921.574 mila voucher nel commercio, nei servizi e in «altre attività». Nel 2008, quando lavoravano solo al settore dell’agricoltura, i «voucheristi» erano 24.437.

Questo è il mondo del lavoro povero descritto da un rapporto del ministero del lavoro pubblicato ieri. Il testo dimostra il fallimento del tentativo di rintuzzare il boom dei voucher aumentando a 7 mila euro il compenso complessivom una norma introdotta dal governo nel giugno 2015. Il 64,8% dei prestatori ha riscosso meno di 500 euro di valore complessivo. Il 20% ha superato i mille euro. Dai dati Inps emerge che il 36,6% della platea aveva riscosso voucher anche nel 2014.

Voucheristi sono in maggioranza giovani. Il 31% dei prestatori del nuovo lavoro a scontrino hanno meno di 25 anni, guadagnano 554 euro all’anno, contro i 762 degli ultra-60enni (il 3,9% del totale). Il 40% dei lavoratori con i buoni lavorano esclusivamente con questa formula e accedono a una contribuzione previdenziale pari al 13 per cento. È chiaro che non avranno una pensione. Così come oggi non hanno nessuna tutela sociale. In Italia si può lavorare con un voucher anche fino a settant’anni. E lo si può fare per tutta la vita, guadagnando un reddito ben al di sotto della soglia di povertà.

I voucheristi sono la «nuda vita» del nuovo precariato che lavora in agricoltura, nei servizi e nel commercio. Nelle ultime settimane lo scandalo della loro «nuda vita» si è imposta con tale violenza da costringere persino il governo a cercare una parvenza di soluzione. Ieri il ministro del lavoro Poletti ha confermato – di nuovo – il progetto di correggere la tendenza con un decreto del Jobs Act. Vuole rendere «tracciabili» i buoni per il lavoro accessorio. Le imprese dovranno comunicare con un sms all’Inps il nome del lavoratore e la durata del rapporto per impedire di acquistare il voucher ed usarlo in casi di infortunio o per nascondere rapporti di lavoro dipendente a tutti gli effetti. Nel 2015 il 24% dei voucher venduti non sono stati «riscossi». Nel 2014 lo furono il 92%.

In un’auto-video-intervista postata ieri su facebook Poletti è ricorso a una delle metafore colorite con le quali cerca di testimoniare un impegno: «Stringeremo i bulloni per limitare o se ce la facciamo impedire le furbate delle imprese». Una simile «stretta» è inutile per la Cgil secondo la quale l’sms «non serve a contrastare gli illeciti, resteranno milioni di lavoratori in un’area grigia senza diritti, nuovi poveri sempre più precari».

«Il voucher – sostiene il segretario confederale Cgil Serena Sorrentino – maschera l’elusione, è una forma di precariato estremo e povero». Per Corso Italia il rimedio del governo non arresterà il blob dei voucher da 10 euro (7,50 ai lavoratori) che dilaga nei servizi e nel commercio. «In questo mondo grigio lavoro sommerso e grigio si sovrappongono – aggiunge Sorrentino – I voucher sono concorrenti del lavoro subordinato: il dato così basso sulla retribuzione fa sorgere il sospetto che coprano molto lavoro nero». Nella Carta dei diritti la Cgil chiede l’abolizione dei voucher e su questo si prepara al referendum abrogativo, insieme all’estensione del diritto del reintegro in caso di licenziamento illegittimo e a un altro sugli appalti.

Anche la Uil ha bocciato la «tracciabilità» escogitata da Poletti: «Misure che si riveleranno inutile – sostiene il segretario della Uila-Uil Stefano Mantegazza – Il governo deve riportare i voucher alla loro originaria funzione: pagare e fare emergere i piccoli lavori occasionali come il giardinaggio, le ripetizioni scolastiche o i servizi di baby sitter. Qui invece si sostituiscono con i ticket le buste paga dei contratti per pagare il lavoro dipendente». La «tracciabilità» è una «forma di ipocrisia inutile per smascherare un sistema che fa il gioco degli imprenditori disonesti». Per la Fai-Cisl quello del governo «è un passo nella giusta direzione. Vigileremo».