«Sapete, mi piacerebbe scrivere come succede nella testa. Nella testa le cose più disparate accadono simultaneamente, ma purtroppo si può scrivere solo in modo lineare. La mia immagine ideale di scrittura è un tessuto. Vorrei creare un tessuto in cui i fili si intrecciano e si sovrappongono, e poi nasce una trama che non è la risultante di un filo solo». È il 14 giugno del 2010 e Christa Wolf rilascia una lunga intervista a Susanne Beyer e Volker Hage – pubblicata su Der Spiegel – che diviene pretesto per imbastire una conversazione appassionata sulla politica e la letteratura, punti fondamentali attorno a cui si concentra l’ultimo e imperdibile Rede, daß ich dich sehe (Verlag, 2012) ovvero Parla, così ti vediamo (edizioni e/o, pp. 176, euro 17), nella traduzione di Anita Raja.

La tessitura di cui accenna, cioè il piacere che affiora da ciò che si affolla nella testa e arriva alla disciplina sapiente del dare conto di sé, è il controcanto di ciò che per Christa Wolf è sempre stata accurata ricerca verso una parola che non cedesse a disordini né a confusioni. Parola sessuata, progetto di desiderio e di conoscenza dove fosse chiaro che «scrivere è fare le cose grandi», dove cioè «le cose si superano solo scrivendole», la meraviglia della scrittura di Christa Wolf si dipana a questa altezza lungo dodici brevi scritti tra saggi, interviste, lettere e discorsi preparati dal 2000 al 2011.

In Parla, così ti vediamo, tratteggiata l’esperienza dello scrivere e l’andirivieni della lingua, emergono il rigore degli affetti e dei legami così come l’osservazione critica della temperie in cui Wolf è vissuta, una complessità che ancora può interrogare il presente e la sua violenza strutturale, domandare giustizia, decifrare le falle e le rinunce di una contemporaneità apparentemente senza scampo e fondata sul profitto e sull’ottusità.
Si potranno così seguire alcune considerazioni e interlocuzioni collocabili tra Thomas Mann, Paul Parin, Egon Bahr, Günter Grass, nominati e incontrati in specifiche occasioni. Di Mann, Wolf ricorda la caratura in occasione di un premio che riceve nel 2010 e che è a lui intitolato; poi la descrizione dell’incontro con Uwe Johnson.

Fin dalla condivisione di uno spazio affascinante e simbolico come il Meclemburgo, Wolf ne restituisce gli accesi scambi, sì che le serate trascorse a chiacchierare di letteratura e politica scorrano insieme al ritratto di uno scrittore appassionato e combattuto per cui centrale è stato «essere infinitamente vulnerabile e contemporaneamente pretendere con impazienza la perfezione, da sé e dagli altri».

Sullo stesso crinale della generosità critica, avanza la figura di Günter Grass che utilizza le parole come fossero cipolle – riprendendo il titolo di un suo scritto – e decide di mettere in questione le fratture, gli oneri e le contraddizioni del suo percorso di «ritrovamento di sé», porgendo a Wolf la possibilità di riflettere sull’autobiografia e i suoi rischi.

Consapevole che i punti dolenti di una comunità si possano riconoscere proprio dal fatto che se ne tace sia in pubblico che in privato, la scrittrice analizza in più di un passaggio il rapporto ambivalente con la Rdt – che innerva quasi tutti gli scritti compreso il celebre discorso dedicato al «punto cieco» tenuto nel 2007 al Congresso internazionale di psicoanalisi, svoltosi a Berlino per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale. Parole puntuali sono per esempio dedicate al momento iniziale del movimento rivoluzionario nella Rdt, indimenticato perché all’inizio sorretto da una forte utopia. Domandarsi se l’errore di valutazione delle possibilità offerte dalla situazione storica non possa forse definirsi anch’esso il «punto cieco» di quei soggetti che ne sono stati coinvolti, consente a Wolf di concludere che «la piena comprensione di tutti i nessi e di tutte le conseguenze di una realtà contraddittoria paralizzerebbe ogni necessario movimento».

Il ricordo insieme al tema del ripetere e rielaborare caratterizza il processo psicoanalitico ma anche il lavoro di Wolf e serve per precisare alcuni motivi su cui si è soffermata, al contempo proponendo uno sfondo che è quello della letteratura considerata in gran parte «il serbatoio della memoria di un popolo». Brecht, Proust, Tabori, Hesse e Silvia Bovenschen, sono i nomi attraverso cui Wolf allestisce una breve storia della parola ricordo nella scena letteraria. La considerazione politica è tuttavia che siamo in presenza di una marea che si muove tra la dimenticanza e l’assillo per la conservazione senza soluzione di continuità e soprattutto senza una rappresentazione efficace nel tempo presente. Infine, se «lo spirito del tempo si impossessa dei nostri ricordi», questi ultimi si declinano in molti modi: simili a una corrente scura che trascina rituali, retoriche, estorsioni e blocchi rivelano una vasta risacca tra perdita e dimenticanza.

Il riferimento principale va all’esperienza dei tedeschi che dopo il secondo conflitto mondiale hanno operato una «massiccia perdita del ricordo», quasi al limite di una negazione di consapevolezza. La memoria «cede, e si vieta l’irruzione del ricordo dei massacri».
Eppure, tenendola viva, forse occorre farci i conti per diventare se stessi, «con ogni energia diventare se stessi».