Il fallimento più grande delle piattaforme di giornalismo digitale è la loro incapacità di assegnare un valore economico differente a seconda del tipo e della qualità della storia pubblicata.

Su un sito o un’app di notizie, lo spazio pubblicitario è venduto per lo stesso identico prezzo sia se si tratta di un riassunto messo su al volo da uno stagista sia se è un’inchiesta che ha richiesto un intero team di giornalisti e fact-checker.

L’unico elemento che ha un impatto sul CPM (costo per ogni mille visualizzazioni) è il piazzamento del modulo pubblicitario. Un banner collocato in homepage è molto più costoso di uno seppellito altrove nel sito. Analogamente, essere in cima allo schermo è più remunerativo che essere in fondo.

Ma queste differenze economiche non hanno niente a che fare con le dimensioni, la profondità e l’unicità di un articolo o con la competenza del suo autore. (…) Essere in grado di dare il giusto valore a un contenuto (un articolo, un video, etc.) collegandolo al prezzo da addebitare per la pubblicità darebbe sollievo agli editori.

Certo, l’idea di dare un valore qualitativo a una storia è difficile. Sia staticamente che dinamicamente. (…) Una notizia infatti ha un valore dinamico che cambia molto nel corso del tempo. Prendiamo alcuni casi immaginari (e tragici).

IN UN GELIDO GIORNO d’inverno un Boeing 787 precipita nei campi di mais a pochi chilometri dall’aeroporto di Chicago. 200 morti. È una tragedia umana ma anche un serio problema per Boeing, che ha lanciato il nuovo aereo sul mercato solo pochi anni prima dopo molto ritardo per alcuni problemi strutturali relativi alle nuove fibre di carbonio della carlinga.

Il racconto di questo incidente sui media consisterà subito in una serie infinita di aggiornamenti a caldo dopo il disastro, il pianto dei parenti, le circostanze, le possibili cause, le speculazioni di legioni di esperti tirati fuori di corsa dall’oblio. Tutte notizie importanti ma merci senza rilevanza economica, commodity news: ogni mezzo di informazione del pianeta attingerà più o meno allo stesso flusso di notizie nello stesso momento.

La qualità (intesa in senso giornalistico) è così così perché a caldo i rumor e le speculazioni tendono a ingigantirsi se non si fanno verifiche approfondite.

Tutti i media insomma sono sulla stessa barca. Il valore di ciascuno dunque è zero, a prescindere dalla pubblicità che si carica (molte aziende non vogliono comparire accanto a tragedie di questo tipo).

MANO A MANO PERÒ che il ciclo di notizie si amplia, la situazione cambia. Almeno in teoria.

In ogni redazione, i reporter che hanno contatti nel settore dei trasporti e dell’aeronautica cominciano a compulsare le rubriche, e smuoveranno mari e monti pur di avere una fonte attendibile che dichiari qualcosa sull’incidente. Soprattutto tra le istituzioni di controllo, gli addetti alla sicurezza, gli investigatori sul posto.

QUI INIZIA A ENTRARE in ballo il concetto di «notizia esclusiva»: il primo reporter che riesce ad agguantare le trascrizioni delle voci in cabina avrà una notizia che ha un qualche valore economico. Ma solo in teoria però. Perché in pratica questo scoop, almeno sul web, avrà meno valore pubblicitario dell’ultima notizia su Kim Kardashian derubata a Parigi.

Questo trend terribile per il giornalismo digitale è cresciuto molto negli ultimi anni a causa della compravendita automatica degli spazi pubblicitari on line.

Secondo e-marketer, gli ad programmatici avranno il 73% del mercato digitale Usa, con una crescita annuale del 44%. Nessuna di queste macchine è minimamente progettata per assegnare un valore economico al lavoro giornalistico a cui accoppia la pubblicità: non sa distinguere tra un’inchiesta vera e una paranoia cospirativa.

E qui arriviamo al punto: il mercato non premia né l’esclusività delle notizie né il duro lavoro giornalistico tradizionalmente inteso (che è l’arte cruciale e difficile di coltivarsi delle fonti).

E torniamo al nostro esempio fittizio.

A un certo punto un reporter del Seattle PI news ha una dritta sul disastro di Chicago. Secondo fonti molto qualificate dell’ente addetto alla sicurezza nei cieli, l’aereo potrebbe essere caduto per un cedimento strutturale dovuto alla turbolenza incontrata nella fase di atterraggio all’aeroporto.

Questa sì che è una notizia. Il sito e il giornalista ci lavorano bene e la pubblicano con grande evidenza, attirando anche molti lettori.

Ma anche in questo caso, purtroppo, il valore economico dello scoop è quasi irrilevante. Entro pochi minuti il servizio viene ripreso dalla Cnn e fa il giro del mondo, ottenendo migliaia di volte il traffico del sito originario. Alcuni citano il Seattle PI news come fonte, altri no.

ALCUNI INFATTI PENSANO che un bel pezzo giornalistico porta più soldi agli editori perché attira più lettori.

In teoria. Ma in pratica le vere notizie, le «hard news», attirano molto meno traffico di storie di gossip o scopiazzature. È quasi sicuro che un articolo dal titolo: «I 10 gadget indispensabili per chi viaggia in aereo» avrà più visite dello scoop sul disastro di Chicago di cui sopra.

VEDIAMO ORA LE COSE da un’altra angolazione.

Tre mesi prima dell’incidente, un oscuro professore universitario specializzato in fibre di carbonio pubblica un saggio sulla tenuta di questo composito in aeronautica su un sito per addetti ai lavori (ne esistono migliaia, su qualsiasi argomento tecnologico, spesso sono molto seri e attendibili, il tech-porn è un settore in decisa crescita).

All’epoca della sua uscita, quel saggio era stato letto da pochi maniaci. Di fatto era sconosciuto. Finché un altro articolo del Seattle PI news lo riscopre e lo pubblica, con un link e citando bene la fonte. Il professore finalmente ottiene tante visite e forse a quel piccolo sito arriverà anche qualche soldo di pubblicità. In questo caso il tempo e il contesto hanno accresciuto il valore economico di un lavoro approfondito.

TRE PUNTI IMPORTANTI in conclusione:

  1. mentre il valore giornalistico di una notizia cambia moltissimo, il suo valore economico rimane disperatamente piatto;
  2. il web è pieno di siti con contenuti specializzati che hanno un alto valore giornalistico ma che di fatto sono introvabili fuori da piccoli circuiti;
  3. per riconciliare il valore giornalistico e il valore commerciale di una notizia bisogna cambiare totalmente il modo in cui si compra e si vende la pubblicità on line.

PER AFFRONTARE QUESTA sfida ci sono diverse complicazioni: ogni storia che esce fuori da un CMS (cioè da un sistema editoriale) deve avere un insieme di segnali precisi riconoscibili, (tag, o etichette) che ne definiscono la qualità: inchiesta invece di pastone, un ritratto approfondito invece di una scheda lampo, etc.

Queste «etichette» dovrebbero essere riconoscibili dalle macchine che comprano e vendono gli spazi pubblicitari, in modo da individuare valori commerciali anomali e alzare il prezzo.

Questi stessi segnali dovrebbero essere riconoscibili dalle piattaforme secondarie come i motori di ricerca, i social network e gli aggregatori di notizie, che dovrebbero garantire ad articoli contrassegnati come importanti e di valore un ranking più alto nei propri algoritmi.

Naturalmente sono consapevole delle difficoltà di costruire un sistema come questo, a prova di errori, in grado di scalare su contenuti e argomenti diversi. E ancora più difficile sarà inventarsi un sistema che sia universalmente accettato e utilizzato.

LA STRADA È DAVVERO lunghissima. Ma inevitabilmente il problema di insegnare agli algoritmi a riconoscere i contenuti è e diventerà sempre di più di primaria importanza. Implica procedure di machine learning e reti neurali che dovranno scansionare milioni di storie prima per capire e poi per imitare come un caporedattore umano valuti la qualità editoriale di un articolo, la sua peculiarità giornalistica, il suo valore a lungo termine, la sua unicità o esclusività rispetto agli articoli della concorrenza.

Traduzione dall’inglese di Matteo Bartocci. Questo articolo è comparso su Monday Note, una newsletter settimanale dedicata a media e tecnologia