Uno spettro a cui tutti danno la caccia si aggira nel continente dell’Uomo. Con questa espressione, suggestiva e carica di aspettative, Massimo Filippi apre il primo capitolo di un volumetto tanto piccolo quanto denso dal titolo Altre specie di politica (Mimesis, pp. 68, euro 4.90), firmato insieme a Michael Hardt e Marco Maurizi. Dipanato in tre capitoli, quello centrale orienta tutti gli altri che in certo qual modo lo sorreggono. Il punto cruciale è infatti all’altezza del contributo di Michael Hardt (sotto forma di intervista curata da Massimo Filippi) che getta una luce inedita e originale sul «mal detto» e il «non detto» che infesta il pensiero filosofico. Quello spettro a cui Filippi fa riferimento è l’Animale, niente meno che un «sintomo» e niente più che un potente rimosso che, come tale, erompe per indicare una «sensualità desiderante» che eccede la normatività del pensiero. È in questa premessa teorica che sta la portata politica dell’operazione di Altre specie di politica. Nella ricerca precisa, diremmo interlineare, nei testi di Antonio Negri e Michael Hardt (in particolare Impero, Moltitudine e Comune),

MASSIMO FILIPPI individua l’apparizione di animali lungo alcuni snodi fondamentali come quello relativo alla trasformazione del soggetto rivoluzionario. Il riferimento a talpe, serpenti e millepiedi, viene letto dunque non come una metafora qualsiasi bensì, à la Lacan, come una nuova significazione tesa a sostituire un significante con un altro.
Si tratta di un bestiario eversivo giunto, secondo Filippi, al pensiero di Negri e Hardt nel punto di massima incandescenza, capace di aprire un varco, una frattura. Gli indizi che hanno condotto Filippi all’intervista con Michael Hardt sono molteplici e tuttavia percorrono un crinale preciso: mettere davanti al «dolore e alla gioia dell’antispecismo» lo stesso filosofo. Cominciando a interrogarlo, come era stato con Judith Butler nel volume precedente a questo (Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, Mimesis), cercando tuttavia di non stravolgerne il pensiero ma tenendo fra le mani la possibilità di contaminare territori sorprendenti con grani pensanti e antispecisti. Come nel caso di Butler, anche questa a Hardt è una intervista intelligente. È lo stesso filosofo statunitense a segnalare che il proprio «laboratorio filosofico» ha già previsto di «prendere in considerazione l’idea della necessità di sviluppare relazioni sociali tra umani e non umani nel tentativo di affrontare problemi filosofici e politici che vi si associano leggendo autori come Viveiros de Castro».

DETTO QUESTO, e molte altre cose, Hardt precisa un posizionamento decisivo sollevando posizioni che riportano ai primi e illuminanti anni Sessanta: «sì all’articolazione delle diverse lotte per la liberazione e sì alla lotta a fianco degli altri, ma no a ogni rivendicazione che pretende di lottare a nome di altri o per gli altri». Bisogna dunque interrogarsi su cosa può voler dire per gli umani combattere con gli animali senza però lottare a nome loro. Gli umani, piuttosto, «dovrebbero rivendicare il loro diritto a non essere persecutori degli altri animali e di altri esseri».
In questa direzione, restando nella faglia fertile (aperta da Hardt e Negri in particolare), Marco Maurizi aggiunge nell’ultimo capitolo elementi importanti alla discussione. Così la «lunga marcia delle moltitudini all’interno dell’Impero è il divenire comune della propria estraneità all’ordine costituito». Ciò che si paventa allora è che l’Animale da sintomo divenga parte di quell’esistenza «comune» ancora da inventare.