L’aborto clandestino torna ad essere una piaga in Italia, anche se i numeri sono fortunatamente molto diversi da quelli precedenti al 1978, anno in cui venne varata la legge 194 proprio per arginare il fenomeno. Oggi però il problema torna ad emergere tanto da aver sollevato l’attenzione del governo che, nella sua schizofrenia bipartisan, da un lato sottovaluta il fenomeno – nella relazione annuale al parlamento del ministero della Salute – minimizzando così anche il problema della cosiddetta «obiezione di struttura», e dall’altro decide di sanzionare le donne che fanno ricorso all’aborto clandestino (e solo loro) con multe da capogiro.

Nel decreto legislativo sulle depenalizzazioni varato in Cdm il 15 gennaio scorso, infatti, è previsto l’inasprimento delle multe fissate attualmente a 51 euro nell’articolo 19 della 194. Quindi, d’ora in poi le donne che si rivolgeranno a strutture non accreditate o a medici non autorizzati per interrompere la gravidanza, magari solo perché è più facile che pagarsi un viaggio verso altre regioni dove la legge 194 è appena meglio applicata, saranno sanzionate con multe che vanno dai 5 mila ai 10 mila euro.

«È una decisione folle ed estremamente punitiva per le donne: la devono ritirare immediatamente», insorge la deputata di Sinistra Italiana Marisa Nicchi, componente della commissione Affari Sociali. «Che in Italia ci sia un abuso di obiezione di coscienza che lede la libertà delle donne e le costringe a volte a dover ricorrere all’aborto clandestino, ce lo dice la condanna ricevuta dalla Corte europea dei diritti umani», ricorda la deputata di Sel che ha presentato insieme al suo gruppo parlamentare una mozione per impegnare il governo a «promuovere una seria campagna di monitoraggio su questo fenomeno, organizzare campagne di prevenzione nei consultori e assicurare la piena applicazione della legge 194 in ogni struttura del territorio nazionale, nel pieno rispetto della libertà delle donne».

Perché era in nome della libertà e della maternità consapevole che negli anni ’70 si sviluppò la campagna che portò alla legge 194. Ed era in nome dell’antiproibizionismo che il Partito Radicale promosse nel 1981, tra gli altri, un referendum per abrogare proprio quegli articoli della 194 che puniscono medici e donne che ricorrono all’aborto fuori dai limiti di legge.

«Il ministero della Salute non monitora più gli aborti clandestini dal 2005 – riferisce Nicchi – e nella relazione annuale al parlamento si riporta il dato dell’Iss che quantifica tra i 12 mila e i 15 mila casi nel 2012, ma è un dato molto sottostimato perché non tiene conto della possibilità di reperire i nuovi farmaci capaci di indurre l’aborto, acquistabili anche sul mercato clandestino e su internet». Il problema è che si vuole guardare il dito e non la luna. «Invece di punire le donne, il governo deve capire i motivi – continua Nicchi – Nel 2013 sono risultati obiettori il 70% dei ginecologi, in Molise il 93,3% e l’80,7% in Lazio e in Abruzzo. Circa il 35% delle strutture viola il dettato della 194 con l’”obiezione di struttura”». Ma che per la ministra Lorenzin «il numero di non obiettori risulta congruo, anche a livello sub-regionale, e non dovrebbe creare problemi nel soddisfare la domanda di Ivg».

Ma se non si può negare il diritto ad obiettare – che sia per via della coscienza che chiama o della carriera che pretende – almeno si potrebbero promuovere campagne di sensibilizzazione e soprattutto rendere più accessibile l’aborto farmacologico «in regime di day hospital e, dove possibile, nei consultori familiari e nei poliambulatori». Ricordano i deputati di SI che «dal 2009 l’Aifa ha autorizzato l’immissione in commercio della Ru486. Ma nel 2013 solo il 9,7% delle donne ha potuto usarla». Nella mozione viene citata la lettera inviata poche settimane fa alla ministra Lorenzin dall’associazione Amica nella quale si sottolinea come il ricovero ordinario per l’aborto farmacologico «sia una procedura non appropriata che comporta uno spreco enorme di risorse (oltre 1000 euro a paziente, contro i circa 600 del day hospital, e i circa 50 della procedura ambulatoriale)».

«Ci sono molte cose da fare, dunque – conclude Nicchi – anziché stigmatizzare e punire le donne che non possono fare altro, perché è lo Stato che non garantisce le libertà dovute».