Jo Byeong-man e Kang Kye-yeol sono sposati da settantasei anni, e insieme raggiungono quasi due secoli d’età: lui ha infatti novantotto anni, lei – che gli è stata data in moglie appena quattordicenne – ottantanove. Insieme e in completa indipendenza vivono in una casa poco distante da un villaggio di montagna della Corea del Sud, nella provincia di Gangwon. Cucinano, vanno al mercato, a qualche picnic organizzato con altri anziani del luogo, raccolgono fasci di legna per il fuoco che Hubby – il soprannome dato al marito dalla moglie – porta ancora sulla schiena fino a casa.

La loro storia d’amore è stata raccontata per la prima volta in un programma tv coreano dedicato alle coppie più anziane del paese, ed è poi diventata il soggetto del primo documentario cinematografico del produttore e regista televisivo Jin Mo Young: My Love Don’t Cross That River, in programma in questi giorni al Trento Film Festival tra i lungometraggi in concorso.

«Quando ho visto la loro storia in televisione, mi sono precipitato a casa di Jo Byeong-man e Kang Kye-yeol», spiega il regista. «Non volevo che questa vicenda rimanesse confinata sul piccolo schermo – continua – così ho deciso di portarla al cinema. In questo modo avrei potuto far conoscere il loro amore straordinario a un pubblico che non fosse solo sudcoreano, ma globale».

Perché globale è il sentimento che viene mostrato, benché la coppia vesta abiti tradizionali – sempre rigorosamente abbinati l’uno all’altra – e abbia usanze e credenze altrettanto lontane dal pubblico occidentale. Come tutti però, soffrono quando vedono i figli litigare, quando devono seppellire una delle loro amate cagnoline e soprattutto al pensiero che la morte giunga presto a separarli. Il fiato di Hubby si fa infatti sempre più corto, e il suo unico momento d’ira e frustrazione in tutto il film è quando realizza di non avere più le forze di appendere uno specchio nel cortile.

«Non ho portato con me nessun operatore, così da poter costruire una profonda intimità con questa coppia», dice il regista Jin Mo Young che con My Love Don’t Cross That River ha fatto la storia del cinema sudcoreano, raggiungendo il primo posto fra i documentari più visti e surclassando anche i blockbuster hollywoodiani usciti quell’anno – il 2014 – nelle sale del paese , tra cui Interstellar di Christopher Nolan.

L’ «intimità», però, è un po’ troppa, o forse troppo strumentale e sfrontata davanti all’ingenuità di una coppia lieta di mostrare al mondo il proprio amore. Il regista non alleggerisce mai l’insistenza del suo sguardo neanche nei momenti più strazianti del declino di Hubby, seguito fin sul letto di morte. E anzi gli ottantacinque minuti di film ricavati da oltre un anno trascorso con i due coniugi privilegiano proprio le sequenze più convenzionalmente tragiche, da usare come testa d’ariete per condurre lo spettatore a un’inevitabile commozione.
Forse non è un caso che in seguito all’uscita del film la vedova abbia dovuto abbandonare la sua casa per andare a vivere con una delle figlie, tormentata da chi la voleva incontrare o intervistare. Tanto che la stessa produzione ha dovuto chiedere ai «curiosi» di desistere dai loro tentativi di contattarla, così che sull’anziana signora si potessero finalmente spegnere i riflettori.