«Allora mi ha guardata, e sul viso aveva un’espressione di grande gentilezza, e ora capisco che aveva riconosciuto quello che io non sapevo: che nonostante la mia pienezza, ero sola. La solitudine è stato il primo sapore che ho assaggiato nella vita, ed è rimasto sempre lì, nascosto nelle screpolature della bocca, a ricordarmelo»

ELIZABETH STROUT, Mi chiamo Lucy Barton

«La solitudine è un posto popolato: una città in se stessa»

OLIVIA LAING, The Lonely City

«D’altronde adesso è una città diversa, o è la gente a volere cose diverse. I cespugli di Union Square che nascondevano lo spaccio non ci sono più, e nemmeno i telefoni pubblici da dove si chiamava lo spacciatore. Ieri pomeriggio, quando sono passato di lì per fare una pausa, c’erano dei ballerini impegnati in una danza al rallentatore sotto gli alberi rivitalizzati. Famigliole sedute in ordine sui teli, in una luce vinosa. Continuo a vedere scene simili dappertutto, arte pubblica difficile da distinguere dalla vita pubblica, auto a pois oziosamente parcheggiate in Canal Street, edicole infiocchettate come pacchi dono. Come se i sogni potessero essere piatti alternativi nel menu delle esperienze disponibili. Strano a dirsi, però, l’effetto di questa razionalizzazione di ogni ultimo desiderio, il molto del molto di questa città di oggi, è ricordarti che quello che vuoi non è quello che troverai là fuori»

GARTH RISK HALLBERG, Città in fiamme

Quando avevo diciotto anni, subito dopo la maturità, andai in Inghilterra, a Brighton. Era il mio primo viaggio fuori dell’Italia e partii da sola. Avevo un budget assai limitato e per tre settimane non ebbi molto da fare, a parte qualche escursione a Londra e passeggiate per i lanes e i piers della cittadina sulla Manica che conoscevo per il film Quadrophenia. Proprio per questo andai a Eastbourne a vedere Beachy Head, dove si svolge la scena finale del film, in cui Jimmy fa volare giù dalla scogliera la Vespa di Ace Face. Nella classifica dei posti preferiti per suicidarsi, Beachy Head è stabile nella Top 3. Camminando lungo lo strapiombo, sbirciavo la striscia di spiaggia giù in basso. Chiesi timidamente a un signore che leggeva seduto su una sdraio se c’era modo di scendere fino al mare. Lui alzò gli occhi dal giornale, mi guardò fissa e pacatamente rispose: «No, dear».

Più tardi presi l’autobus per tornare a casa. L’esperienza doveva avermi scombussolata parecchio: quei grandi spazi vertiginosi, vuoti come le mie giornate, si sommavano all’essere lontana da casa da settimane, completamente sola in un paese straniero. L’autobus era affollato e io viaggiavo in piedi, aggrappata a una maniglia. Dovevo avere un’espressione devastata, perché una signora si alzò, mi venne vicino e mi chiese: «Non ti senti bene? Vuoi sederti?». Io fui sorpresa, come se mi avesse colta in flagrante, e risolutamente rifiutai l’offerta. «No, grazie. Sto bene», risposi con le lacrime agli occhi.

La mia reazione d’istinto non era insolita: la solitudine si accompagna a un senso di vergogna per la propria condizione. È inconfessabile, inammissibile, un tabù. Lo dice in The Lonely City – Adventures in the Art of Being Alone Olivia Laing, scrittrice e critica inglese che qualche anno fa, dopo la fine di una storia d’amore, decise di affittare la sua casa in Inghilterra e trascorrere lunghi periodi a New York, vivendo in appartamenti lasciati temporaneamente vuoti da alcuni amici, migrando di quartiere in quartiere e aggrappandosi alla città che la ospitava.

Un grande sollievo

«Una ragione importante per cui sono andata a New York – ha detto Laing al giornalista Charlie Potter – è che tutti quelli che conoscevo in Inghilterra si stavano sposando e facevano figli, mentre tutti quelli che conoscevo a New York erano queer, conducevano vite assai diverse e la loro priorità era produrre arte. Ciò mi dava un grande sollievo nonostante mi sentissi sola. Uno dei motivi per cui ho scritto questo libro era riflettere sulle diverse modalità con cui possiamo costruire le nostre vite, e su come le comunità politiche o artistiche siano antidoti alla solitudine e modi di vivere la propria vita o sessualità. Un fenomeno tipico del XXI secolo è che improvvisamente tutti vogliono di nuovo sposarsi. Io lo trovo offensivo. Viviamo in un’epoca di grande paura e questo è ciò che la gente fa quando ha paura. Con questo libro voglio affermare che esistono altre strategie radicali con cui vivere la propria vita sociale e sessuale».

 

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Ralph Goings: «Still life with water glass», 1998, olio su tela

 

In quel periodo di sofferenza e isolamento Olivia Laing ha costruito una «mappa della solitudine» con cui ha esplorato la complessa relazione tra la condizione del sentirsi soli e l’arte. La conclusione è che la solitudine in realtà può essere qualcosa che merita di essere osservato. Anzi, «guardare è di per sé un antidoto, un modo per sconfiggere lo strano e straniante sortilegio della solitudine», che fa agognare l’intimità, il contatto, ma allo stesso tempo porta il soggetto a autoisolarsi per sfuggire al senso di minaccia che sente provenire dall’altro. Il Professor John Cacioppo dell’Università di Chicago afferma che la solitudine cronica aumenta le probabilità di morte precoce del 20%: all’incirca lo stesso effetto dell’obesità, che però non rende altrettanto infelici. Le persone sole sono più concentrate su stesse, il loro cervello è impegnato nell’autopreservazione: senza accorgersene, diventano gli animali ai margini del branco. Fra i vari effetti collaterali, questa condizione di stress cronico influisce sulla qualità del sonno e altera gli ormoni. Anche se non sono stati stabiliti legami diretti con tumori e patologie cardiache, sono dimostrati invece gli effetti negativi sul sistema immunitario. Chi si sente solo e vulnerabile perde in empatia e compassione e quindi in abilità sociali, al punto che la cura più efficace per vincere la solitudine consiste nel diventare prima di tutto consapevoli dei cambiamenti a livello cerebrale nella percezione degli altri, e poi nel reimparare a comunicare, leggere e interpretare le interazioni sociali, a partire da voci, sguardi e linguaggio corporeo.

Olivia Laing racconta la devastazione che la solitudine produce nella sua vita con lucidità catartica, guardando in faccia il mostro e inserendolo in una narrazione stimolante e avvincente. Lo fa utilizzando le immagini prodotte da artisti newyorchesi del Novecento, a partire da Edward Hopper. Nessuno meglio di lui cattura la solitudine urbana con il silenzio e il vuoto delle sue tele, che ne restituiscono «non solo l’aspetto, ma anche la sensazione, comunicando con i suoi muri vuoti e le finestre aperte un simulacro della sua architettura paranoica, il suo modo di intrappolare ed esporre simultaneamente». È l’effetto Finestra sul Cortile in cui il voyeurismo isola l’osservatore e l’osservato: Jeffries, il protagonista del film di Alfred Hitchcock, ha un evidente problema di intimità e l’obiettivo della sua macchina fotografica è uno schermo che lo protegge dal coinvolgimento emotivo.

La donna che voleva uccidere Warhol

Anche Andy Warhol frapponeva tra sé e gli altri molteplici strati di tecnologia (registratori, macchine fotografiche, tv, cineprese). In lui la solitudine dell’essere diverso, escluso, diventava l’aspirazione a essere simile alla moltitudine per sfuggire alla discriminazione e all’isolamento. Un bisogno manifestato nella ripetizione ossessiva della stessa immagine: centinaia di Marilyn e di Elvis prodotti meccanicamente, perché l’artista vuole essere una macchina, come le appendici tecnologiche che formano la sua corazza e diventano surrogati di intimità e amore.

Laing esplora universi ancora più oscuri e dolorosi come quello di Valerie Solanas, la donna che tentò di uccidere Warhol. Vittima di abusi sessuali del padre fin da bambina, vissuta per strada fra prostituzione e ospedali psichiatrici, Solanas finì sopraffatta dalla paranoia: rifiutava di parlare per paura che le parole le venissero rubate, evitando se possibile perfino di aprire la bocca. Morì di polmonite nella stanza di un welfare hotel di San Francisco e il suo cadavere fu ritrovato dopo tre giorni: la morte più solitaria che si possa immaginare, «quella di qualcuno che è rotolato fuori del mondo del linguaggio, tagliando i legami non solo dell’amicizia e dell’amore, ma anche i molteplici piccoli nessi verbali che mantengono una persona all’interno dell’ordine sociale».

L’artista per cui Laing mostra maggiore connessione empatica è David Wojnarowicz. Sopravvissuto a un’infanzia di gravi abusi e deprivazioni e a un’adolescenza altrettanto emarginata e violenta, Wojnarowicz ne emerse con un senso di profondo isolamento, diversità e disagio dovuti anche alla non accettazione della sua omosessualità. Divenne uno dei protagonisti della scena dell’East Village newyorchese degli anni ‘80 con opere estremamente personali ma di forte impronta politica, come la serie di scatti con il volto di Rimbaud, una fotocopia del ritratto sulla copertina di Illuminazioni. Da quella maschera «la solitudine fuoriesce a ondate, irradiandosi dal volto misterioso e privo di espressione del poeta. Quelle fotografie testimoniano non solo un modo di vita, ma anche l’esperienza di sentirsi diversi, tagliati, fuori, incapaci di confessare i veri sentimenti… Esprimono un senso di isolamento, di conflitto tra il desiderio di stabilire un contatto, di uscire dalla prigione dell’io, e di nascondersi, allontanarsi, scomparire», scrive Laing.

Gentrificazione mentale

L’opera di Wojnarowicz acquisì fama nazionale proprio nel momento in cui l’epidemia dell’Aids falciava un’intera generazioni di artisti, lui compreso. Di quella New York parla un libro citato da Olivia Laing: Gentrification of the Mind – Witness to a Lost Imagination di Sarah Schulman, un memoir sui quindici anni (1981–1996) in cui nella metropoli morirono oltre 80 mila persone in condizioni di agghiacciante ignoranza e paura. I malati venivano lasciati morire su barelle nei corridoi degli ospedali, mentre politici e personaggi pubblici chiedevano la quarantena o i tatuaggi per sieropositivi e malati di Aids. Schulman, attivista Lgbt, scrittrice e docente universitaria, racconta come per spazzare via la «peste», la città sia stata «bonificata» dalla cultura ribelle dei queer e dal suo vibrante sottobosco artistico, rimpiazzandoli con la cultura pastorizzata del consumismo mainstream.

L’immaginazione di un’intera generazione è stata così cancellata e sostituita dalla gentrificazione mentale.

 

olivia laing
Olivia Laing

 

Raccogliendo la testimonianza di Sarah Schulman e innestandola nel suo filone di ricerca sulla solitudine nelle grandi città, Olivia Laing elogia la funzione di integrazione e connessione sociale delle culture e degli stili di vita alternativi, rilanciando un messaggio oggi tremendamente attuale: «Rendere le città e le nostre vite più eterogenee, complesse e differenziate possibili è un antidoto alla solitudine. Solo così possiamo liberarcene. Invece viviamo un’epoca in cui si tende a rendere tutto sempre più omogeneo, si chiudono i confini dei paesi e si impedisce ai rifugiati di entrare. Dicono che il sogno del multiculturalismo è finito, che siamo più al sicuro se siamo tutti uguali. Tutto questo a me suona minaccioso e pericoloso: non è questo il modo di creare pace e stabilità. Al contrario, è avere società complesse che richiedono continuamente azioni altrettanto complesse e diversificate. Questa è la tesi sotterranea del libro. Un mondo in cui tutti sono uguali risulterà molto solitario per chi non si adatta. Invece se tutti siamo estremamente diversi, ognuno potrà farne parte».