Il fascino indiscreto della provocazione de Les Blancs, les juifs et nous di Houria Bouteldja. Di lei dicono che è «razzista, omofoba, antisemita, antifemminista». Ma soprattutto, Houria Bouteldja «è una provocatrice». È una provocatrice per aver scritto un libro che solletica e ferisce nelle sue profondità più intime la coscienza sporca della République, la nazione che ha dato i natali all’intero progetto egemonico della modernità occidentale, a partire dalla Rivoluzione Francese. È una provocatrice perché pecca di lesa maestà, e a quel 1789 fa rispondere l’eco «decoloniale» di un’altra data, 1492. La scoperta non di un continente, ma di un’alterità, o meglio di un altro, immediato oggetto di dominio, sfruttamento, sterminio.
È una provocatrice come lo era, cinquant’anni fa, Franz Fanon, che nel 1961 pubblicava un libro che Sartre consigliava ai bianchi di leggere per vergognarsi, «perché la vergogna, insegna Marx, è un sentimento rivoluzionario».

È UNA PROVOCATRICE perchè ci ricorda che la strada alla decolonizzazione è lastricata di buone intenzioni, e c’è un mattone sconnesso su cui la sinistra francese – ma in questo caso l’estensione transnazionale è d’obbligo – continua a scivolare, e si chiama Palestina. È una provocatrice perché traccia una genealogia della Shoah che affonda le radici nell’esperienza coloniale, nell’archivio di pratiche di detenzione e sterminio inventate contro i neri e che il nazismo ha riportato all’interno dell’Europa. Perché ci ricorda che se non si storicizza l’orrore, lo si trasforma in una fede da celebrare nelle sue vuote ritualità.

È una provocatrice come è una provocazione un manifesto, di cui è stata coautrice nel 2012, che titola: Nous sommes les indigènes de la République. Siamo gli indigeni della Repubblica, figli dei dannati della terra, esito dello sterminio sanguinario e sistematico portato avanti in Algeria da chi si fregia di aver inventato una modernità fondata sui diritti umani. È una provocatrice perché ci ricorda che anche il Daesh non è altro che un frutto impuro di questa storia violenta. È una provocatrice perché agita i sonni dei progressisti, ricordando che il cuore di molte delle battaglie della sinistra riposa sull’indiscutibile condizione della «bianchezza», non come peccato originale ma come rapporto sociale specifico che associa l’essere bianchi al privilegio.

È una provocatrice perché non ci fa sfuggire dal razzismo insito nelle nostre società postcoloniali, e non solo quando assume la forma dell’estrema destra che afferma l’esistenza di razze biologiche e culturali. Anche quando assume quella della sinistra che ne nega l’esistenza, rafforzando, di fatto, il perdurare di un sistema razzializzato di ineguaglianza.

È UNA PROVOCATRICE perché è una donna che non si dice femminista. E ci parla del femminismo come dispositivo normativo agito storicamente sui corpi delle donne nere dipinte come vittime, al fine di poter sottomettere uomini neri dipinti come carnefici. È una provocatrice perché ci spiega che quando serve solo a migliorare le condizioni di donne ricche dentro stati-nazione bianchi ed omogenei si chiama femo-nazionalismo. È una provocatrice perché insiste fragorosamente nelle contraddizioni di un’epoca in cui potrebbe venire presto eletto il primo presidente femonazionalista della storia degli Usa e lo sterminio quotidiano dei non-bianchi nelle metropoli americane non verrà rallentato.

È una provocatrice perché ricorda, con Gramsci, che il nostro vecchio mondo sta crollando e che in questo chiaroscuro abbiamo ancora una scelta tra i mostri che sorgono e una politica nuova, una politica dell’amore rivoluzionario. Una politica del noi che compia la provocazione suprema: provincializzare l’Io cartesiano, su cui si fonda il progetto eurocentrico della modernità. È una provocatrice perché ci sfida a costruire un noi decoloniale, che non si basi sulla semplice solidarietà ma sul riconoscimento: quello del moltiplicarsi violento delle frontiere che il capitalismo impone al mondo. Un certo essenzialismo strategico impedisce al libro di Houria Bouteldja di compiere l’ultimo, fondamentale, passaggio verso questo noi davvero inclusivo. Ma, del resto, non è questo il suo compito. È il nostro.