La mostra di Banksy ospitata nel Palazzo Cipolla di Roma, dal titolo Guerra, capitalismo & libertà (visitabile fino al 4 settembre) dirada le nebbie sul mistero che circonda l’identità del celeberrimo writer: lui non c’è, non ha collaborato all’allestimento come leggenda sul suo anonimato vuole, ma possiamo dare per certa la sua futura destinazione. Banksy sarà stritolato dai meccanismi di quello stesso capitale che per anni ha voluto combattere, le sue meravigliose figure – che scompaginavano l’ordine di alcuni quartieri nelle metropoli del mondo – verranno ammaestrate, trasformandosi in «marchi di fabbrica».

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In un gioco di specchi, dove tutto si confonde, l’istanza di controcultura che Banksy ha sempre seminato in frammenti, è stata inghiottita dall’ufficialità e stemperata da quotazioni alle aste e dall’interesse dei galleristi. Il processo è inevitabile e ha coinvolto già altri graffitisti prima di lui – da Basquiat a Haring solo per fare gli esempi più conosciuti. L’artista non è innocente né, probabilmente, può agire diversamente: la normalizzazione è insita negli strumenti medesimi del suo mestiere. Sia quando lancia bombe o sguinzaglia ratti, o ancora inventa un parco a tema inquietante come Dismaland.

La monografica promossa da Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, a cura di Stefano Antonelli, Francesca Mezzano & Acoris Andipa, con quella grande mole di opere dello street artist (centocinquanta, nessuna prelevata dalla strada) proveniente da gallerie e case di collezionisti, è sì no profit, sì didattica, ma non può che spuntare le armi della provocazione, musealizzando ciò che non è possibile musealizzare. Senza il suo contesto urbano, nascosto agli occhi di chi attraversa la città, sotto l’abbraccio benevolo delle banche, Banksy ha una voce affievolita. E per ascoltarla, dal momento che ormai è diventato un «super classico», bisognerà pagare un biglietto. Strepitose restano le sue interpretazioni delle crisi politiche e sociali del mondo contemporaneo, folgoranti per ironia e bellezza le sue cover musicali, potentissimele sue icone.

Banksy HollyWoodRat Andipa Gallery, una delle opere esposte nella mostra 'Guerra Capitalismo & Libertà' a Palazzo Cipolla dal 24 maggio al 4 settembre 2016. Roma, 6 maggio 2016. ANSA/UFFICIO STAMPA +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Eppure, queste ultime presentate in sequenza, ordinate per tematiche e con cartelli esplicativi, perdono il loro innesto nella vita quotidiana. Non disorientano come il buco dipinto nel muro palestinese. Era lì, infatti, negli interstizi della storia, che si nutrivano e nutrivano con cibo ecologico la mente e lo sguardo altrui. Non importa, alla fine, che quelle opere non siano state strappate dai muri né che le abbia vendute lui stesso o con la mediazione dei dealers. A conclusione del tour, si imbocca la via di casa con una gran malinconia. D’altronde, già quando Banksy faceva incursioni da pirata nel Bristol museum, era tutto concertato. Però, a quel tempo, l’artificio spiazzante aveva la sua firma.