La legge è uguale per tutti: la pretenziosa affermazione che campeggia nelle aule di giustizia a imperitura tutela del sacro principio della parità di fronte al diritto, alla luce delle dure repliche della storia, meriterebbe una qualche correzione. O, almeno, il ricorso a un condizionale composto, un «dovrebbe essere», dal momento che purtroppo nella nostra lingua manca quel «modo del desiderio» che gli antichi greci chiamavano ottativo.

Dunque, la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Questo, sì, potrebbe essere un buon punto di partenza. Naturalmente seguito dalla sua negazione (la legge non dovrebbe essere uguale per tutti), perché i nostri palati raffinati hanno imparato a riconoscere il sapore delle differenze e delle disuguaglianze, e sappiamo che diverse condizioni dovrebbero essere trattate diversamente, perché abbiano accesso ai medesimi diritti e ne siano ugualmente tutelate.

VISTO DAL FONDO della bottiglia, quel monito egualitario inscritto nei tribunali suona infatti beffardo e inclemente. Ogni anno in Italia, in nome di decine di migliaia di norme penali, si consumano centinaia di migliaia di processi, e altri vi si aggiungono, in una coda senza fine. Poi, però, sul fondo della bottiglia, negli istituti di pena, restano depositati sempre gli stessi, alcune decine di migliaia di persone, socialmente e anagraficamente connotate, condannate per quella decina di reati che riempiono le nostre carceri. Una grande macchina che ingloba di tutto, ma che alla fine distilla quella solita essenza di devianza e marginalità sociale. (…)

Su 54.072 detenuti, 18.166 sono gli stranieri, un terzo del totale, quattro volte più che nella società libera. Si dirà: commettono più reati, anzi: vengono qui apposta per commetterli, al fine di trovare adeguate opportunità per la loro vocazione etnica criminale. Ma ovviamente non è così. Sì, certo, gli immigrati senza regolare titolo di soggiorno (coloro ai quali, in genere, noi e le nostre leggi non consentiamo di avere un regolare titolo di soggiorno) è probabile che incorrano più facilmente in violazioni della legge penale, dovendo vivere e guadagnarsi da vivere nell’irregolarità e nell’illegalità. (…)

MA LA CITTADINANZA è solo uno degli indicatori della selettività sociale del carcere. Prendiamo, per esempio, i dati relativi all’istruzione e all’occupazione prima dell’arresto. Dietro le sbarre i laureati sono tutt’ora meno degli analfabeti, che costituiscono il 2,11% della popolazione reclusa. E il 26,36% non ha assolto l’obbligo scolastico e non ha il diploma di scuola media inferiore (un certo numero nemmeno quello elementare). Quando ancora se ne rilevava la condizione occupazionale (dicembre 2012), quasi il 60% dei detenuti era disoccupato o in cerca di prima occupazione, e tra chi aveva una qualifica professionale quasi il 70% risultava «operaio», pochi impiegati, qualche artigiano e poi improbabili imprenditori di se stessi, appena più dei liberi professionisti, la categoria meno frequente tra i detenuti, pari al 3,68% dei censiti.

Ecco, è questa la composizione del carcere, predeterminata dalla diseguaglianza sociale esterna, che indirizza verso le istituzioni penitenziarie le espressioni della marginalità giudicate preoccupanti, prima e più che pericolose.

Così in carcere si riversano la malattia mentale che non viene presa in carico sul territorio, l’abuso di sostanze stupefacenti che si mostri incompatibile con la vita di società (un quarto dei detenuti ha problemi di dipendenza, e una parte vi entra per la sola detenzione), l’immigrazione irregolare e le ragazzine rom con i loro bambini. In altre parole, oggi il carcere e, più in generale, l’intero sistema penitenziario, rappresenta un’istituzione per la quale la definizione più pertinente è quella di classista.

UNA GRANDE e articolata agenzia che occupa spazi e funzioni, competenze e servizi, progressivamente lasciati scoperti dalla crisi del sistema di welfare. Un apparato di produzione e riproduzione allargata dei processi di esclusione e sperequazione. Insomma, vale per il diritto e per la giustizia quanto don Milani diceva a proposito della cultura: «non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali». In realtà, lo sappiamo, è un principio che riguarda tutti i beni, le risorse e le opportunità. E anche la legge: non può essere eguale per tutti, sopraffatta com’è da così tante disparità.