La scultura è un’arte che riempie lo spazio, siamo abituati a pensare: arte plastica e tridimensionale per eccellenza, lavora con la materia e occupa un posto. Appena entrati alla mostra Alexander Calder Performing Sculpture (Tate Modern, fino al 3 aprile; catalogo con saggi di Achim Borchardt-Hume e altri, pp. 240, 200 illustrazioni, £ 24.99 in paperback, £ 35 in hardback), scopriamo tuttavia che le cose possono essere meno prevedibili: la scultura può lasciarlo vuoto, lo spazio, infatti. Le sculture di Calder (1898-1976) sono in fil di ferro (o rame), sicché disegnano i contorni di un vuoto anziché definire una massa corporea: il punto di equilibrio e la cura del dettaglio contano di più dell’evidenza e dell’energia. L’effetto è senz’altro straniante: sarebbe divertente immaginare i kouroi dell’antica Grecia, il David di Michelangelo o il Pensatore di Rodin ridotti a puri contorni di filo metallico, ma certo è che a Calder non interessa l’imporsi della figura quanto piuttosto il suo librarsi nell’aria, il suo comporsi in sintesi senza che le parti se ne cadano una per una e il suo ritagliare lo spazio anziché ingombrarlo. Ercole in lotta con il leone ce lo immaginiamo trionfo di muscoli e forza, tensione delle linee e torsione delle masse, ma in fil di ferro diventa gioco di leggerezza, grazia della forma, eleganza e stilizzazione.
A partire da qui Calder sviluppò la sua sfida più grande: trasformare in strutture regolate da fili le opere dei grandi pittori dell’astrattismo europeo, Mondrian e Mirò su tutti. Mondrian era contrario e glielo disse, ma Calder non rinunciò: la struttura e la forma della pittura astratta gli sembravano invocare una traduzione scultorea, che solo l’arte del filo poteva realizzare. Il risultato è indubbiamente epigonale, perché l’opera non può essere apprezzata senza la conoscenza dell’originale da cui è partita, ma valorizza la riproducibilità della forma, oltrepassando la formula benjaminiana della riproducibilità tecnica a favore di una più complessa e stimolante riproducibilità concettuale. Più vicino alle forme simboliche teorizzate da Cassirer che alla sfida all’aura di derivazione benjaminiana, da bravo laureato in ingegneria meccanica (titolo conseguito nel 1919, a ventun anni, allo Stevens Institute of Technology di Hoboken, nel New Jersey) Calder si è divertito a realizzare macchinari in miniatura che riproducevano i gesti atletici del circo in quella che è forse la sua opera più famosa e meno vistosa (al punto che la mostra la riduce a un minuscolo video su una parete), quel Cirque Calder che gli fece sperimentare il cinetismo, lo avvicinò al mondo dei bambini e gli diede da guadagnare in tempi difficili: inventore del mobile, una scultura sospesa nello spazio che reagisce allo stimolo delle correnti d’aria o di un motore elettrico, fin dagli anni trenta (fu Duchamp a denominare così le sue sculture), Calder è sempre stato un esploratore del rapporto tra evoluzione tecnologica e ricerca estetica ed è sempre rimasto, in fondo, un ingegnere prestato all’arte. Basta leggere la scheda di uno dei suoi Mobiles à moteur: «Le due palle bianche ruotano ad alta velocità su se stesse. La spirale nera ruota a bassa velocità e sembra sia in movimento ascendente. Il disco di stagno gira ancora più lentamente e le due linee nere sembrano salire costantemente. Il pendolo nero, di 40 cm di diametro, sale a 45° con 25 oscillazioni al minuto ed esce ogni volta dalla cornice». Oppure una delle sue poche dichiarazioni di poetica: «Non deve essere solo un momento passeggero, ma un legame fisico tra i mutevoli eventi della vita», scriveva nel ’32 proclamando l’adesione all’astrattismo: «non estrazioni, ma astrazioni, astrazioni che non somigliano ad altro nella vita se non nella loro maniera di reagire». Uomo del suo tempo, sempre in sintonia con gli ismi dominanti, cubista, futurista, astrattista e avanguardista, ma anche primo interprete figurale del trenino elettrico, del meccano e dell’autopista, tra culto della macchina, ricerca del moto perpetuo, tensione verso la forma pura e valorizzazione d’uso dell’oggetto estetico, Calder sembra ancora oggi un artista per bambini, interessato più all’intrattenimento che al senso profondo dell’esperienza. Eppure è proprio qui la sua forza, come quella di Tinguely o di Chagall o di Cornell o di tanti altri grandi del Novecento: nel divertirsi, che dà senso all’esperienza mentre la si vive piuttosto che nel momento dell’analisi e della riflessione.
C’impone di cambiare lo sguardo, finalmente, pensando a usarle o rifarle anche noi, le sue sculture in fil di ferro che volteggiano nell’aria e le sue macchine un po’ rudimentali che esplorano il gioco delle reazioni a catena: chi non si è mai divertito a fare figurine o oggetti col fil di ferro dei tappi di spumante (inventati e brevettati da Adolphe Jaqueson, un produttore di Champagne di Chalon-sur-Marne, nel 1844) non sa cosa si è perso. Non poteva che approdare a mappamondi, sferisteri, planetari e astrolabi pendenti uno scultore del genere: lì s’incontrano forma e movimento, equilibrio e dinamismo, astrazione figurativa e realtà dei corpi celesti, «il sistema dell’universo» e «la libertà della terra», come diceva lui. Sottilissimi listelli di legno tenuti insieme da fil di ferro formano quelle che James Johnson Sweeney e il solito Duchamp avrebbero chiamato«costellazioni», esaltate da Sartre in un saggio scritto per la mostra del 1946 alla Galerie Louis Carré di Parigi come «una piccola festa locale, un oggetto definito dal suo movimento e che non esiste al di fuori di esso, un fiore che svanisce non appena si ferma, un gioco puro di movimento come esistono giochi puri di luce». Oscillano, si scontrano, ritornano alla posizione di partenza, le sue costellazioni, come se movimento e stasi fossero in una dialettica permanente che non può produrre altro che contemplazione, fascinazione ipnotica e rapimento estetico: non c’è obiettivo se non interno all’opera. Nate dai mobiles, le sue opere erano diventate ormai stabiles, come le chiamò Hans Arp proprio per contrapporle ai mobiles: «fu una strana sensazione – disse in seguito – vedere una mia esposizione dove non si muoveva niente». Quel che gl’interessava, comunque, era sempre e solo la forma come risultato della posizione dei corpi nello spazio, individualmente e reciprocamente: «L’idea di corpi staccati fluttuanti nello spazio, di diverse dimensioni e densità … alcuni a riposo, mentre altri si muovono in modi tutti loro, mi sembra la fonte ideale della forma».
Negli stessi anni trenta in cui Calder sperimentava la scultura col fil di ferro e i modellini a meccanismo propulsore, l’italiano Franco Munari dava inizio alla sua serie di Macchine inutili, senza motore e superfragili, affidate all’aria e in torsione attorno a un filo di seta, ma anche costruite con rigorosi procedimenti geometrici e armonici: se Calder metteva in crisi solidità, compattezza e staticità della scultura tradizionale, Munari ironizzava sulla cieca fiducia progressista e tecnocratica nello sviluppo industriale. Il disposto combinato è un invito a ripensare i miti della modernità, che troppo facilmente ha rinunciato a riflettere sul rapporto dell’umanità con le sue origini, la sua posizione nel mondo e la sua dialettica con la natura.
Di qui il dialogo costante di Calder coi grandi musicisti e danzatori modernisti, da Edgard Varèse, Virgil Thomson e John Cage a Martha Graham e Ruth Page. Di qui l’intreccio tra pittura, scultura, istallazione, musica e performance per sfidare i confini e verificare le reazioni, come quando consentiva agli spettatori di ricombinare a piacimento le bottiglie, la scatola, la lattina e il gong che componevano Small Sphere and Heavy Sphere, due palle il cui urto provocava l’impatto con gli oggetti in modo da produrre suoni diversi (1932-’33). Se può sembrare impolitico o persino opportunista, visto che nel ’37 sosteneva la Repubblica spagnola esponendo la sua Mercury Fountain davanti a Guernica all’Esposizione Internazionale di Parigi e due anni dopo aderiva al movimento trionfante del capitalismo occidentale con la partecipazione alla New York World’s Fair, è solo perché il suo interesse è tutto per gli effetti, fino a risultare (qui sì in clamorosa controtendenza) un geometra dello spazio anziché un artista eticamente e civilmente impegnato. «Cesellatore del ferro / orologiaio del vento / allenatore di gatti neri / ingegnere spassoso / architetto inquietante / scultore del tempo», lo definì Prévert, in un poema a lui dedicato.
Se la scultura è l’introduzione del movimento nell’immobile, Calder non può essere considerato uno scultore, scriveva Sartre nel saggio già ricordato: non suggerisce il movimento, ma lo capta e lo cattura. La sua forza sta nel non suggerire niente: nell’essere autoreferenziale, perché i suoi mobiles non significano niente e non rinviano a niente. Sono e basta, assoluti, materia pura in cui la parte del diavolo è forse più forte che in qualsiasi altra creazione umana. Senz’anima e senza intellezione: autonomia pura dell’esistere in quanto tale.