Un volume con una tesi dichiarata fin dal prologo: «Questo libro sostiene che, nel 1943-1945, gli italiani che dichiararono “stranieri” e “nemici” gli ebrei, li identificarono su base razziale come gruppo da isolare e perseguitare, li stanarono casa per casa, li arrestarono, li tennero prigionieri, ne depredarono beni ed averi, li trasferirono e rinchiusero in campi di concentramento e di transito, e infine li consegnarono ai tedeschi, furono responsabili di un genocidio»: così Simon Levis Sullam inizia I carnefici italiani – scene del genocidio degli ebrei, 1943-1945 (Feltrinelli, pp. 147, euro 15). Un libro dichiaratamente di parte che nulla concede alla retorica del bravo italiano – «in fondo gli italiani non sono stati feroci come i tedeschi» – e che pone al centro della propria analisi la categoria del genocidio inserito nel contesto della guerra civile: «Un genocidio è un tentativo violento di cancellare in tutto o in parte un gruppo su basi etniche o razziali e non vi è dubbio che – sebbene l’atto finale dello sterminio generalmente non avvenne su suolo e per mano italiana – anche gli italiani presero l’iniziativa, al centro e alla periferia del rinato Stato fascista, partecipando al progetto di annientamento degli ebrei, con decisioni, accordi, atti che li resero attori e complici dell’Olocausto, seppur con diversi gradi e modalità di coinvolgimento, secondo differenti ruoli, contributi pratici e forme di partecipazione».

Così, nell’attuale clima culturale e politico, che appanna responsabilità individuali e collettive e ha una robusta tendenza a decontestualizzare la Shoah – lo sterminio ebraico nella seconda guerra mondiale a opera dei nazifascisti – collocandolo nella metafisica piuttosto che nella storia, Sullam non fa sconti: impietose le pagine che dedica alle delazioni – studi, ed è di per sé significativo, relativamente recenti nel panorama italiano – anche a quelle di ebrei che denunciarono altri ebrei condannandoli così alla cattura e alla deportazione. Ma ancor più significative appaiono le riflessioni dedicate alla burocrazia dell’orrore. Nonostante il tentativo totalitario nella Repubblica Sociale i centri di esecuzione della normativa antiebraica si moltiplicarono ma nessuno si sottrasse, fino al paradosso: si estese lo status delle persone fisiche – l’articolo 7 della Carta di Verona, del novembre del 1943, documento programmatico della neo costituitasi Repubblica sociale recitava che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica» – alle istituzioni, dichiarando di “razza ebraica” gli stessi enti da sciogliersi: stabilendo così ad esempio, che «la Comunità israelitica di Venezia è di razza ebraica e quindi considerata nemica».

Dopo anni in cui la pubblicista ha dedicato molta attenzione ai «giusti» (coloro i quali, durante gli anni della persecuzione antiebraica e delle deportazioni salvarono ebrei mettendo in pericolo la propria vita) il volume di Sullam indica per l’Italia una nuova linea interpretativa: «Nella catena della trasmissione ed esecuzione degli ordini di arresto e deportazione le forze di polizia e gli apparati dello stato si trovarono in prima fila: essi furono molto di frequente supportati – quando non occasionalmente sostituiti – dalla Milizia, dalla Guardia nazionale Repubblicana, da elementi del partito, da corpi o singoli al servizio del tedeschi, da gruppi autonomi». Al punto tale che nel giugno del ’44 una circolare di Buffarini Guidi, Ministro dell’Interno, lamentava che «in Italia tutti arrestano, questa illegalità nociva deve finire». «In questi termini – prosegue Sullam alcune pagine più avanti – si può parlare quindi di genocidio degli ebrei e di responsabilità italiane. Non si trattò inoltre solo di coloro che compirono materialmente gli arresti: polizia, carabinieri, finanzieri, membri della Milizia o della Guardia nazionale repubblicana e di volontari fascisti, ma di coloro che compilarono le liste delle vittime: dagli impiegati comunali e statali dell’anagrafe razzista, ai funzionari di polizia che trasformarono i nomi degli elenchi in stati di arresto, dal prefetto e dal questore che firmarono gli ordini di cattura, giù giù lungo la scala gerarchica fino alle dattilografe che ne compilarono i documenti».

Sullam, implicitamente, rimette al centro la responsabilità individuale all’interno di un processo parcellizzato, e indica un modo di analizzare la vicenda italiana del 1943-1945, documentando responsabilità articolate e diffuse. Nella riflessione però non si affronta il ruolo che ebbe la congiura del silenzio sul destino degli ebrei – dell’esistenza di un progetto di sterminio totale si ebbe evidenza solo al termine delle ostilità e con il rientro dei reduci. Salvo poche fasce di ebrei in contatto con la Resistenza, con i comandi alleati, o con gli ebrei stranieri già in fuga davanti all’avanzare dell’esercito nazista, gli ebrei stessi, nonostante il timore della cattura, ignoravano il loro destino. Levis Sullam prosegue la propria analisi fino agli anni del dopoguerra, alla mancata defascistizzazione e all’amnistia Togliatti: sono anni in cui la stessa burocrazia dell’orrore prosegue il lavoro senza che l’abrogazione delle leggi razziali ne interrompa l’abbrivio. Così il paradosso: l’Ente preposto alla confisca e all’amministrazione dei beni ebraici richiede ad una delle vittime il saldo di lire 5473 «dovuto in dipendenza della gestione dei beni a suo tempo confiscati a suo danno, in applicazione dei provvedimenti adottati sotto l’imperio delle abrogate leggi razziali. Il tutto oltre gli ulteriori interessi». Il documento risale al novembre 1949, a referendum istituzionale avvenuto e con la Costituzione in vigore da quasi due anni.

Un vecchio adagio recita che la storia non si fa con i «se» ma è pur vero che le ipotesi sono invece uno strumento potente di interrogazione. A Venezia le operazioni per il rastrellamento degli ebrei avvennero la notte del sei novembre: «I commissariati – scrive Levis Sullam – disponevano degli elenchi con gli indirizzi degli ebrei (…). Che cosa sarà successo quella sera nelle case dei poliziotti, dei carabinieri e dei fascisti prima degli arresti? Un pasto frugale consumato rapidamente: “Sono in servizio anche questa notte”. “Ci hanno detto di tenerci pronti e trovarci al commissariato sta sera”. “C’è un ordine per l’arresto degli ebrei”. Perché? Cosa hanno fatto? “C’è la guerra. Sono stranieri e nemici. Non c’è da fidarsi”. “C’è la guerra, tutti devono pagare. Loro più degli altri perché ne approfittano”». Un dialogo inquietante, immaginato per cercare di dare corpo alle storie che i documenti raccontano, documenti del 1943. Ma è bene stare attenti alla potenza delle ipotesi: perché, se così fu – o magari dovesse essere – il seguito è stato: «Dove li portano? In campo di concentramento. “Poi si vedrà”. “In Germania: ci penseranno i tedeschi”».