La conversazione con Lech Kowalski avviene al telefono, lui è a Parigi dove vive. Da oggi però sarà possibile incontrarlo a Milano per la retrospettiva (più libro monografico, Camera Gun. Il cinema ribelle di Lech Kowalski, Agenzia X, a cura di Alessandro Stellino) che gli dedica il festival Filmmaker (fino all’8 dicembre con una masterclass il 30 novembre).

É una buona occasione per conoscere a distanza ravvicinata un cineasta che ha segnato gli ultimi decenni del cinema del reale, i cui film hanno circolato poco in Italia nonostante un passaggio alla Mostra del cinema di Venezia (2005) con lo struggente East of Paradise, il racconto della madre deportata in un campo di lavoro sovietico durante lo stalinismo. Lo spunto di partenza della nostra chiacchierata è il suo film più recente Holy War Holy Field in cui Kowalski arriva nelle campagne polacche per filmare la battaglia dei contadini contro le multinazionali che trivellano il terreno in cerca di gas. Il governo e i politici locali hanno dato il loro benestare senza neppure ascoltare quello che accade nella vita di questa gente, cosa significa il fracking che fa tremare le case, infanga l’acqua, impedisce il raccolto, avvelena piante, animali, ogni cosa. E nel silenzio più totale dei media o peggio ancora nella disinformazione che lo presenta come una garanzia di modernità.

Può sembrare strano ritrovare Kowalski, narratore di storie e «eroi» metropolitani, i giovani punk, i Ramones (Hey! Is Dee Dee Home, 2003), i Sex Pistols (D.O.A, 1981), gli homeless del Lower East Side (Rock Soup, ’91), in un luogo dove il tempo è ancora scandito dalle stagioni anche se la natura ha perduto ormai per sempre la poesia dell’incontaminato. Eppure seguendo quei contadini nella realtà globalizzata che avanza, si ritrovano con evidenza gli elementi che attraversano i suoi film in cui la macchina da presa è sempre e comunque un’arma. E una scelta di impegno politico ma declinato in modo diverso, mettendo a rischio sé stessi, il proprio corpo alla ricerca di un conflitto più che per decidere da che parte stare. «Mi interessava molto la lotta dei contadini per proteggere la terra. É un soggetto che riguarda la nostra cultura, e la sopravvivenza dell’umanità, e che invece viene messo nell’ombra dalle grandi corporazioni che controllano tutto. Questa guerra ha creato tra di loro dei legami molto forti, in un certo senso quei contadini sono oggi come erano anni fa i punk». Ma quella della terra è una dimensione che un po’ ritorna nella vita di Kowalski. La famiglia di origini polacche che la fuga dalla guerra ha portato ovunque nel mondo, Iran, Iraq, India, Africa, fino a Londra dove è nato, e poi l’America, viene da lì: il nonno in Polonia aveva aperto una scuola dove insegnava ai contadini, e una biblioteca. E anche il padre ha tentato l’avventura della terra in America.

Dunque sei cresciuto in campagna?

Non proprio ma la storia è davvero speciale. Mio padre desiderava tantissimo avere una fattoria però eravamo troppo poveri. Pensa che quando vivevamo nel Connecticut i miei raccoglievano funghi, in Italia o in Polonia è una cosa del tutto normale ma in America no. Un giorno mio padre ha avuto un terribile incidente con la macchina, e i soldi dell’assicurazione sono serviti per coronare il suo sogno. La fattoria era nel Wisconsin, vicino a una riserva di nativi americani, a un certo punto però le vacche hanno cominciato a ammalarsi e sono morte. Così le banche ci hanno tolto la terra, quello che è rimasto mia madre lo ha regalato agli indiani. Siamo arrivati a Chicago, dove c’è una grande comunità polacca, e mio padre ci ha lasciati alla stazione per cercare lavoro l’intera giornata finché non lo hanno assunto in fabbrica ed è tornato a prenderci.

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Dicevi che i contadini polacchi sono un po’ come i punk. In che senso?

Da punk sei convinto che anche l’invenzione di un’estetica è un modo per radicalizzare le tue posizioni e la critica al mondo. I contadini non pensano all’estetica ma come i punk sono degli outsiders. Probabilmente ero io a apparire ai loro occhi un punk!La battaglia contro il fracking li ha resi una comunità e anche questo sentimento di appartenenza a qualcosa mi fa pensare al movimento punk. Quando stanno insieme ridono,bevono,si divertono,vivono una dimensione che nelle grandi città abbiamo perso.

Tu ci abiteresti in campagna?

Mi piacerebbe ma amo anche la città, e poi non mi piace guidare e per vivere lì sei obbligato a avere la macchina. La resistenza al fracking svela qualcos’altro, a cominciare dalla perdita di legami tra cittadino e istituzioni politiche che sembra essere un denominatore comune della nostra epoca. È un po’ il nucleo del film. I contadini non si fidano di nessuno, alle spalle hanno il periodo comunista e hanno capito che la democrazia non ha prodotto quel nuovo mondo di benessere che si aspettava ma solo maggiore cinismo. In campagna la dimensione della realtà è molto forte, è la vita stessa. Viviamo in un’epoca di grande confusione dove tutto si frantuma. Loro invece hanno qualcosa in cui credere, e da qui può iniziare una rivoluzione. É quello che sta accadendo in Messico dove i contadini vessati dal governo stanno dando vita a una fortissima opposizione. Girerò lì, tra poco, il mio prossimo film.

Cosa è cambiato in questi anni nel tuo fare cinema?

Posso dirti una cosa che non è cambiata, e cioè la mia attenzione alle facce delle persone che sono sempre molto importanti. È difficile invece descrivere i cambiamenti, oggi preferisco più osservare che muovermi, mi interessa guardare le cose in modo riflessivo. Quando filmavo la campagna era bello ma non accadeva nulla, poi rivedendo il materiale scoprivo molte cose. É anche un modo per capire come non manipolare nel montaggio la storia … Per questo mi piacerebbe fare un film in una sola ripresa. Vito Acconci, l’artista, che era un mio docente, una volta mi ha detto di trovare un posto e di rimanerci 24 ore. Mi sono messo all’angolo della 14a, a New York, ed è stata un’esperienza emozionale molto importante,durante la quale ho scoperto nelle persone e nel mondo particolari che non avevo mai notato. Ora cerco di portare nel mio cinema queste lezioni del passato, rispetto alla velocità in cui viviamo, che è quasi schizofrenica, mi sembra che il solo modo per confrontarsi con la realtà sia stare fermi in un posto.

http://youtu.be/21uJglN6siA

Ma la macchina da presa è sempre un’arma?

Non saprei fare film diversamente, è un’arma e lo è sempre di più se penso al film che sto preparando in Messico. Quando filmo devo trovare la giusta posizione visuale che mi permetta di cogliere qualcosa, la bellezza o la bruttezza, ma nel materiale che ho girato non nelle storie. Molti cercano di manipolare i materiali coi loro soggetti, per me filmare è cercare qualcosa, rimanere aperti e riuscire a essere sorpresi.

Oggi che tutto è su YouTube, la vita privata come le rivoluzioni, che significa un cinema politico?

Si deve stare attenti a non fare propaganda.Quando si va su YouTube si fanno comunque gli interessi delle grandi multinazionali. La gente si diverte ma si stanca anche. Ti faccio un esempio: mi è capitato di vedere dei filmati con l’inizio delle rivolte in Ucraina. Su YouTube ce ne sono molti, alcuni disturbanti, con i morti. Forse raccontano la rivoluzione, o forse qualcos’altro, quello che si è perduto è un «curator», un filmmaker, uno scrittore che dia a queste immagini un contesto. Stanno facendo i soldi con la rivoluzione, è contraddittorio perché chi sta lì vuole che il resto del mondo veda cosa accade ma la mancanza di un autore produce stanchezza e distrazione. Peter Watkins (l’autore di La Commune, ndr)è un regista che amo molto. Volevo fare un film su di lui ma quando l’ho contattato mi ha detto che non vuole più avere a che fare col cinema e la tv. Sarà anche la decisione di un signore che ha ottant’anni ma per me è emblematica di questa confusione nel connettere le informazioni.