Francesco Paolo Memmo, studioso di Palazzeschi, Sereni e Vasco Pratolini di cui ha curato tra l’altro i Meridiani, metricista, giornalista del quotidiano romano «Paese Sera» vicino al Pci, pubblica la raccolta delle sue poesie dal 1971 al 1993 (La linea di basso ostinato, Il Labirinto, pp. 290, euro 22).
Leggere la produzione più che ventennale, rigorosamente corredata della data di uscita delle singole sezioni, offre il vantaggio sia dell’acquisto che ogni singola parola, movenza e componimento riceve dalla rispondenza nell’insieme (se questo accade per ogni discorso, a maggior ragione è vitale nell’alta formalizzazione letteraria), sia della messa in evidenza delle incidenze delle vicende collettive sulla storia dispiegata dalla raccolta.

IL LETTORE è subito accolto da un titolo denso. «Linea di basso» è termine tecnico del linguaggio musicale a indicare una caratteristica compositiva di vari generi, ma che nel testo memmiano con più insistenza rinvia al jazz, particolarmente amato dall’autore, come avverte Donato Di Stasi nella sua prefazione. L’aggettivo «ostinato» unisce all’ordine dimesso appena evocato la costanza esibita di chi non si rassegna alla sconfitta. Le pagine ci pongono di fronte una voce pienamente collocata nel milieu intellettuale della sinistra democratica del secondo Novecento: consapevole del compito primario della conoscenza, allergica al lirismo sempre sospetto di tradimento, nonché in continua allerta contro ogni abbandono al sentimento, avvertito come resa morale. Allora la poesia di Memmo origina da uno scacco, indicato in via negativa proprio dall’«ostinato» del titolo, lo scacco che è dato, prima di tutto e al di là delle sconfitte politiche, dallo iato avvertito tra azione e scrittura, tra senso e parola. L’energia di questa poesia è dunque, costantemente, l’ansia di un ordine razionale delle cose e del mondo. Numerose sono le dichiarazioni dirette o indirette di poetica, trasversali all’intera raccolta, da «la poesia è un gioco sottile dell’intelligenza», alla ricorrenza dell’emblema del «nodo», fino agli esergo da Buonarroti («si dipinge col ciervello et non con le mani») o Borges e al componimento dedicato al lucreziano De rerum natura.
In coerenza con la propria scelta culturale e morale, la lingua di Memmo è strettamente lo standard della lingua comune, non senza giungere fino agli stereotipi, sotto la spinta di sottrarsi il più possibile alle pressioni connotativo-affettive.

Il procedimento di gran lunga più vistoso dell’intera produzione memmiana è la ripetizione, assai insistita, di parole come di forme. Il medesimo fenomeno, com’è logico attendersi, prende significati e funzioni differenti dal mutare del contesto nel ventennio. La raccolta d’apertura (1971-6), contrassegnata da un gusto maudit, è scritta nel quinquennio forse più importante del dopoguerra italiano per le robuste spinte democratiche e contestative. Qui la ripetizione è talvolta impiegata a compensare il rifiuto delle regolarità metriche, già dichiarato dal titolo (L’inverso della norma), con la propria funzione connettivo-ritmica, talaltra è convocata ad anestetizzare la pressione emotivo-lirica con la prosaicità della sua monotonia, persino esposta in serie a chiusura di verso («… portasse/ … facesse/ … passasse») e che, quando insistita, affievolisce lo stesso valore comunicativo. Il gioco dello scarto semantico pare confinato alla occasionale risemantizzazione di tic del linguaggio ordinario: «tabula rasa … sparecchiata». Mentre l’istanza ragionativa produce movenze ironiche e autoironiche: «poteva essere il vietnam / o soltanto una nostra scaramuccia».

DIVERSI SONO GLI ESITI nel polo cronologico e politico-culturale opposto, che si delinea a partire dal quadriennio 1987-90. La sconfitta delle speranze degli anni Sessanta-Settanta è oramai esperienza quotidiana lancinante, tanto da proporre a se stesso: «come un mobile antico farmi duro / e invisibile insomma / fare in una parola il morto», con la consueta risemantizzazione della frase stereotipata posta in corsivo che nel testo indica il galleggiare immobile. Ora l’istanza razionale di un ordine intellegibile appare affievolita, per cui la regolarità della ripetizione spesso diviene una sua protesi, mentre nei giochi combinatori più spinti, di puro contatto, sfocia in esiti francamente incantatori.
Il medesimo ricorso al gioco linguistico sembra, per troppa disperazione, diventare un guscio. Gli elementi canonici di rima, verso, strofe, di cui il metricista ha precisa competenza, a lungo rifiutati arrivano a strutturare massicciamente il dettato, fino ai manierismi ostentati fin nei titoli delle raccolte: Esercizi di metrica e Variazioni e Rimario.

GUARDANDO IL PANORAMA molto sommariamente indicato e traguardandolo con un aspetto particolare epperò centrale della cultura italiana odierna, ovvero con lo stato della lingua, si affaccia una considerazione. La postazione intellettuale e morale, ossia sociale e politica in senso pregnante, da cui la poesia di Memmo ci parla mostra che l’alta considerazione della conoscenza, perseguita con ascetica fedeltà a sé e ai tempi, se continuamente ha messo alla prova la validità conoscitiva, non però ha avvertito in pericolo la lingua, fatto oggi palmare nel nostro disastrato italiano, sintomo e causa insieme della rovina orrenda in cui precipita la paranoica pretesa coloniale di cui siamo parte.