Una non troppo ipotetica storia dell’umanità che volesse prescindere dalle periodizzazioni maggiormente scontate, cercando invece di identificare ex novo i tratti salienti del mutamento di lungo periodo, dovrebbe definirsi, in tutta probabilità, sulla base di coordinate spaziali e temporali slegate dalle sole guerre o dalle mere logiche intrinseche ai poteri legali. Le quali invece, rivestono ancora oggi un valore cronologico che, da sé, risulta spesso fuorviante. La stessa nozione di «società civile», di per sé abusata nella sua sostanziale inconsistenza descrittiva, e ancor più ermeneutica, dovrebbe invece essere posta in tensione con la composizione mutevole che la accompagna.

Il cambiamento sociale, e quindi storico, infatti, è fortemente legato ai processi migratori, al trasferimento da un luogo all’altro di ampi segmenti di popolazioni, ai processi di travaso e di rimescolamento, così come agli effetti che questi producono sia sui migranti che nelle società ospiti. Alle migrazioni sono strettamente correlate le nozioni mutevoli, ossia storicamente determinate, di luogo, confine, spazio ma anche tempo, generazione e così via. Quelle categorie dal cui utilizzo costruiamo i percorsi di senso, i processi di interpretazione, della nostra contemporaneità. Che i conflitti armati, così come le decisioni politiche, vi intervengano attivamente, è chiaro. Tuttavia i processi migratori hanno anche una loro autonomia che, come tale, necessita di essere indagata. Essi sono il campo privilegiato di costituzione e di applicazione delle politiche di selezione e gestione delle collettività nel loro sviluppo socioculturale.

Da sempre, in altre parole, rappresentano un laboratorio dove si dà forma ad una nuova umanità, che nasce dall’ibridazione più o meno spontanea così come dalle reazioni istituzionali che da essa derivano. Tra le quali, il governo della paura e le politiche dell’emergenza, fattori ordinativi nella cultura politica neoliberale. Non di meno, le migrazioni hanno una loro complessità che sfugge alle letture che ne vorrebbero preordinate la nascita e l’evoluzione, quasi che invece si trattassero di fenomeni eterodiretti.
Proprio in questa imprevedibilità di fondo, a ben vedere, si colloca la loro rilevanza, prodotto di una dinamica tra scelta e costrizione che sta alla base della nozione stessa di mutamento storico. Le migrazioni danno quindi respiro ai tratti identitari di medio periodo, destinati a qualificarsi e quantificarsi sulla scorta di una o più generazioni, e capaci, in virtù della loro cumulabilità, di trasformare radicalmente sia quel che trovano così come quel che portano. È peraltro risaputo, e come tale anche immediatamente rimosso nella coscienza collettiva, quanto l’Italia sia stato un paese di emigrazione, avendo assunto solo negli ultimi trent’anni la fisionomia di luogo di approdo.
L’incapacità della politica, e della stessa società, di elaborare criticamente e prospetticamente questo aspetto fondamentale della nostra costituzione materiale è lo specchio del grado zero nel quale versa la discussione su ciò che siamo e, soprattutto, su quello che vorremmo divenire. Dopo di che, una ricognizione di ampio respiro, anche dal punto di vista dell’attrezzatura scientifica, ci è offerta da Andreina De Clementi nel suo volume dedicato a L’assalto al cielo. Donne e uomini nell’emigrazione italiana (Donzelli, pp. 289, euro 27).

L’autrice è persona nota nel campo degli studi storici tout court così come della storia del movimento operaio. Il nesso tra lavoro e migrazione è, peraltro, uno dei sottili e tenaci fili conduttori della sua ricerca, di cui questo testo è una sorta di sintesi delle tante cose da lei già scritte e dette. Le pagine mettono in evidenza il legame tra identità e metamorfosi come elemento costitutivo del processo migratorio.
L’angolo visuale italiano, dall’unificazione in poi, è una piattaforma privilegiata, da questo punto di vista, per cogliere fenomeni pressoché universali. Poiché i fenomeni migratori contemporanei, ognuno dei quali dotato di una sua specificità spazio-temporale, presentano tuttavia una ricorsività che si articola nel rapporto tra bisogno-investimento-mutamento. Per chi migra come per chi ospita. Per le comunità che vedono partire i propri membri, quasi sempre quelli più «attivi», poiché dotati di quel set di risorse (materiali e culturali) indispensabili per compiere un tale passo ma anche per le società riceventi, che si trovano a subire le trasformazioni, a volte telluriche, che questi processi ingenerano.
L’autrice correda le riflessioni di merito con il ricorso ad un’ampia casistica. L’economia del testo è basata sul rapporto tra riflessione generale e rinvio alle esperienze individuali e di gruppo, attraverso un amplissimo patrimonio di testimonianze. Una sorta di database, quest’ultimo, dell’umanità in movimento.

Ciò che resta, dalla lettura di questo volume, è il senso di una trasformazione consapevole, quella che viene fatta da chi sceglie, ancorché in ciò vincolato da necessità incomprimibili che gli sono dettate e che non ha cercato in alcun modo, di andare oltre l’orizzonte di relazioni che lo accompagnano dalla nascita. Ed emerge, quindi, la percezione che all’imperscutabilità degli infiniti movimenti del capitale finanziario si contrapponga, in una sorta di logica del contrappasso, quella ben più tangibile degli esseri umani, alla ricerca di qualcosa d’altro dalla «forma-merce» che gli è altrimenti assegnata.

Sta di fatto che una storia della modernità non possa prescindere in alcun modo dal riscontro della rilevanza strategica che le migrazioni svolgono nel compensare le trasformazioni che i flussi di capitali si sono già incaricati di defnire. Si tratta, a modo suo, di una sorta di lotta di classe traslata, completamente slegata, oggi più che mai, da una logica fordista ma che rilancia la questione di fondo su come l’identità collettiva sia più che mai il prodotto della mobilità prima ancora che della mobilitazione.