Upfield Common è poco più di un villaggio immerso nelle campagne del Surrey, nell’Inghilterra meridionale. Poche case modeste, qualche magione storica, boschi e uno stagno profondo. Solo l’esclusivo collegio di Maypole House, che attira rampolli delle famiglie ricche anche da Londra con la promessa di far superare gli esami finali anche agli alunni meno dotati, ha reso nota questa località oltre i confini della regione. E proprio l’ambigua convivenza tra gli abitanti della zona e i loro figli da un lato, e i giovani-bene arrivati per frequentare l’istituto, mostrerà tutte le proprie crepe dopo la scomparsa di Tallulah e di Zach, due fidanzati diciannovenni con un figlio di pochi mesi. Sarà la madre della giovane, Kim, decisa a scoprire che fine ha fatto sua figlia, a rivelare come intorno ad una delle ricche ragazze della scuola, Scarlett, che vive in una vecchia magione nobiliare della zona (Dark Place), separata dal villaggio da un fitto bosco, si sia costruito un clima misterioso e che fa intravedere l’ombra di segreti inconfessabili.

Con La notte in cui lei scomparve (Neri Pozza, traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, pp. 384, euro 19), Lisa Jewell conferma le doti che l’hanno resa, romanzo dopo romanzo, una delle protagoniste del noir e del thriller britannici. Una ventina di titoli all’attivo, di cui una mezza dozzina già proposti ai lettori italiani da Neri Pozza, Jewell indaga con grande maestria le paure quotidiane, il senso di smarrimento che è pronto a fare capolino nelle nostre esistenze quando qualche certezza sembra sul punto di andare in pezzi, il sottile e contraddittorio confine di classe che definisce spesso il rapporto con gli altri suscitando rancori, risentimenti o anche vero e proprio odio. Tra gli ospiti del Salone di Torino, Lisa Jewell sarà domani al Lingotto (ore 13, Sala Internazionale, con Marco Malvaldi).

Le sue storie sembrano ispirarsi alle paure che accompagnano la vita quotidiana di tutti noi, o alla possibilità che qualcosa in un percorso apparentemente ordinario possa andare storto. Come nascono questi romanzi e da quale idea di paura muove il suo interesse per una storia piuttosto che per un’altra?
Ciò che scrivo nasce spesso dallo sguardo fugace di una persona che cattura la mia attenzione o suscita il mio interesse, voglio capire di chi si tratta, come è arrivato lì e come potrebbero reagire in una determinata situazione. A volte, però, i miei romanzi nascono anche da un luogo particolare: un collegio e un tipico villaggio inglese con tanto di salici piangenti e anatre nello stagno nel caso di La notte in cui lei scomparve. Amo stravolgere l’immagine abituale di posti del genere, indagarla per mostrare tutta l’oscurità che si nasconde sotto la facciata. Ma soprattutto, sì, è vero, scrivo delle paure che vivono dentro di noi, della casualità della vita, del modo in cui tutti conoscono dei momenti che potrebbero distruggere le loro esistenze.

Nel nuovo romanzo, come del resto nei precedenti, la narrazione è costruita a più voci: c’è il punto di vista di una giovane scomparsa come di chi continua a cercarla e via dicendo. Un modo per immergere il lettore in una sorta di spirale dalla quale è difficile uscire o anche per mettere in discussione tutto ciò che appare a prima vista plausibile, normale, conosciuto?
Scrivere rappresenta da molti punti di vista un ottimo modo per condividere con i lettori un contesto generale, articolato e, allo stesso tempo affinare via via la propria visione di autore rispetto a ciò che sta realmente accadendo nella storia. Detto questo, trovo stimolante sia raccontare le cose dal punto di vista di un solo personaggio, visto che non uso un piano prestabilito per scrivere e ho bisogno che le diverse figure mi indichino in qualche modo cosa sta avvenendo, sia far incrociare lo sguardo dei diversi protagonisti. Trovo divertente giocare con la percezione di ciascuno, mettere in scena il modo in cui due persone possono vedere gli stessi eventi in forme completamente diverse l’uno dall’altro. Del resto è esattamente così che accade nella vita.

Come già in «La famiglia del piano di sopra» (Neri Pozza), sebbene in scala diversa visto che in quel caso emergeva l’eco di una setta e dei suoi segreti, anche nel nuovo romanzo torna la sensazione che si possa venire facilmente manipolati da chi ci attrae o verso cui nutriamo dei sentimenti anche profondi. Una trappola, e un rischio, cui siamo tutti esposti?
Mi sono trovata letteralmente intrappolata in un matrimonio per oltre vent’anni, accanto ad un uomo molto carismatico che mi ha prima «bombardato» con l’amore e poi ha cercato di controllarmi. Per questo credo di poter dire quanto sia terribilmente facile per una persona lasciarsi in qualche modo manipolare da un’altra. E sono convinta che si tratti di un tema su cui continuerò a tornare nei miei romanzi, perché è un argomento ad un tempo interessante e sinistro da esplorare e che contiene così tante zone d’ombra.

Nel nuovo romanzo, ragazze e ragazzi poco più che adolescenti sono a un tempo vittime e carnefici e usano la loro fragilità e la loro presa sugli altri per molti scopi. Oltre ad uno sguardo rivolto ai meccanismi famigliari, nel suo approccio al tema c’è anche un qualche rimando a fatti di cronaca?
Vivo con due figlie adolescenti e ho un ricordo molto netto di quando lo ero io stessa, sento un profondo legame con quella parte di me e perciò sono molto vicina alle mie ragazze. Per questo, spesso nel mio lavoro emerge il punto di vista degli adolescenti. Trovo interessante che si tratti di persone non completamente formate, che la loro bussola morale non sia fissata saldamente e che possano ancora cambiare dall’oggi al domani, correre dei rischi e vedere il mondo in modo fluido. In questo libro, Tallulah ne è un perfetto esempio: per molti versi è cresciuta, ha un figlio e una relazione e sa dove sta andando, ma è chiaro che sta ancora cercando di capire chi è veramente e può essere manipolata dagli altri. Quanto ai fatti di cronaca, tendo a non fare troppo riferimento ad essi: i libri sono troppo lenti per stargli dietro.

Pur presentandosi soprattutto come delle esplorazioni psicologiche, i suoi romanzi sono spesso attraversati dall’ombra del conflitto tra le classi, come accade in questo caso dove è palese il senso di estraneità e minaccia che i giovani ricchi riuniti intorno a Scarlett incarnano per la comunità del piccolo centro del Surrey dove si svolge la storia. I confini sociali sono ancora molto netti in Gran Bretagna?
Non sempre scrivo delle differenze di classe, ma in La notte in cui lei scomparve volevo davvero occuparmene. Gli attuali villaggi inglesi rappresentano un’evoluzione degli antichi feudi: i proprietari terrieri costruivano delle piccole case dove viveva il personale che impiegavano o dare in affitto a chi gestiva le infrastrutture locali. Tutti nel villaggio erano in qualche modo legati al signore del maniero. Al giorno d’oggi le magioni nobiliari sono ancora in piedi, ma non c’è alcun legame tra le persone che vi abitano e quanti vivono nei villaggi circostanti. Sopravvive però la divisione tra «noi» e «loro», vale a dire ciò che emerge nella storia: le ragazze adolescenti del posto lavorano nel minimarket dove si serve la loro coetanea che abita nella casa padronale e il giovane uomo del pub che sogna di fare l’attore versa pinte di birra ai ragazzi ricchi che frequentano l’esclusivo collegio locale. I legami che hanno costruito il sistema di classe in Gran Bretagna sono quasi scomparsi, ma ciò che resta evidente è questo profondo divario.

Case, ville, appartamenti, i luoghi in cui vivono i protagonisti hanno sempre un ruolo in ciò che accade nei suoi romanzi. In «La notte in cui lei scomparve» c’è una magione che sorge in un luogo chiamato Dark Place, che sembra tutto un programma… C’è un’ampia tradizione di «case abitate» nel romanzo gotico e nella letteratura romantica britannica. Lei cosa cerca in questi luoghi?
Le persone si comportano in modo diverso dietro la porta della propria casa. Le case sono spesso l’unico luogo in cui si sentono veramente «se stesse» e quindi rappresentano una componente importante per qualsiasi thriller psicologico. Quando immaginavo una casa dove far vivere Scarlett, avevo già deciso di organizzare una festa in piscina da lei e quindi sapevo di aver bisogno di una casa di grandi dimensioni, le uniche che da noi hanno una piscina. Ed è stato solo mentre Kim stava risalendo il vialetto verso quella magione per cercare di ritrovare sua figlia che ho visto comporsi nella mia mente la reale estensione di quella villa. Non mi aspettavo che avesse proprio quell’aspetto, ma è stato come se un fiore fosse sbocciato nella mia testa, stanza dopo stanza, diventando sempre più grande e evidente. Mi piaceva l’idea di tutto quello spazio sprecato, Scarlett lasciata sola a vagare per stanze vuote, trascurata e solitaria, il tutto in netto contrasto con la sua «popolarità» fuori da quella casa. Ecco che il luogo in cui vive serve a rivelare una qualche verità su quella persona.