In occasione del quattrocentesimo anniversario della morte di Vincenzo Scamozzi il Palladio Museum di Vicenza, con il Canadian Centre for Architecture di Montreal e in collaborazione dello Stiftung Bibliotek Werner Oechslin di Zurigo, dedica una mostra all’architetto vicentino nella stessa ampia sala che celebrò lo scorso anno Bramante. A Vicenza non è più il tempo di esposizioni onerose e troppe impegnative, come quella memorabile, Vincenzo Scamozzi 1548 – 1616, inaugurata nel 2003 dal governatore Giancarlo Galan. In quel frangente, il politico sostenne l’importanza della «lezione dei grandi architetti del passato», utile «humus per una trasformazione del Veneto di oggi»: dalle cronache giudiziarie abbiamo conosciuto cosa volesse intendere per «costruire il Veneto della bellezza di domani».

Un lento declino
Vicenza è una città immobile, stordita non solo dagli scandali di banche e imprese ma offesa dall’incapacità dei poteri pubblici locali di decidere un qualsiasi cambiamento in direzione di una migliore qualità urbana: tra valorizzazione del suo patrimonio monumentale e recupero della sua disastrata periferia. Intanto, venute meno le risorse per far funzionare come meriterebbe quel luogo di eccellenza che è sempre stato il Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio in Palazzo Barbaran da Porto, il suo direttore, Guido Beltramini, fa quello che può e ciò che vuole l’organizza in altre parti: a Padova (Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento, 2013) o a Venezia (Aldo Manunzio, Rinascimento a Venezia, 2016).

Tuttavia occorre riconoscere che non trascura quelle circostanze che meritano attenzione e approfondimenti. Eccoci così a raccontare la mostra vicentina che già nel titolo, Nella mente di Vincenzo Scamozzi, un intellettuale al tramonto del Rinascimento (fino al 20 novembre), riprende sviluppandolo, il punto focale dell’attività dell’architetto vicentino. Questo riguarda non in particolare la prassi edificatoria dell’architettura, bensì la teoria che la precede e la sostiene.

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In Scamozzi la sua «erudizione sfoggiata» (Lionello Puppi) e frutto di «faticose costruzioni teoriche» (Manfredo Tafuri), trova nell’Idea dell’Architettura Universale la sua massima espressione. Pubblicata, anche se incompleta, un anno prima della morte, si doveva comporre di dieci libri, ma ne furono dati alle stampe solo dal I al III e dal VI all’VIII. Julius Schlosser Magnino la definì «di erudizione pesante e non sempre digerita», ma il suo giudizio condiviso per secoli, risale al 1924 (Die Kunstliteratur): ben altro riguardo è oggi dato all’Idea dalla moderna storiografia.

Verso la vera «scienza»
In mostra è presentata una parte del «mondo dei libri» scamozziano. Della sua biblioteca che andò dispersa, sono stati rinvenuti diciotto volumi su venti. Dal loro contenuto è evidente l’adesione dell’architetto vicentino al pensiero universalistico del tempo e la misura della sua attività «speculativa» prima che questa fosse imbrigliata – come scrisse Oechslin – dalle autorità accademiche: in primis, dopo la sua morte, quella francese (Académie Royale de l’Architecture). La storica americana Katherine Isard evidenzia in catalogo, costituito da un numero degli «Annali di architettura» (Marsilio, n.27, 2015), quanto le sue invenzioni editoriali anticipino la «pubblicistica scientifica contemporanea» e le sue «convenzioni grafiche» mostrino un’inconsueta conoscenza delle coeve rappresentazioni cosmografiche e cartografiche. Per Scamozzi, infatti, il primato dell’architettura non è solo affermazione del codice classicista con i suoi legami letterari e filosofici, i suoi «capricci» e aporie.

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L’architettura è per lui superiore giacché è scienza. È questa la ragione per la quale si interessa delle relazioni tra arti liberali e matematica, come attestano in mostra i Tre libri del patrizio veneziano Giovanni Maria Memmo, ma anche di quelle con la geometria: lettore meticoloso di Sacrobosco (De Sphaera, 1564) e di Hartmann Beyer. Cosa si debba intendere in Scamozzi con scienza lo spiega Franco Barbieri, il suo massimo studioso, nell’intervista con Beltramini pubblicata in catalogo. Per l’architetto vicentino l’architettura è prima di tutto l’applicazione di una metodologia: per lui «significa elaborare un progetto – dice Barbieri – in cui sono affrontate in anticipo, sulla carta, tutte le soluzioni concrete che si presenteranno necessarie quando dovrà essere eseguito». Scamozzi, a differenza di Palladio, «genialissimo artigiano», è un «professionista» ante litteram, anticipatore della divisione del lavoro nel cantiere tra ideatore ed esecutori dell’opera. Ha una concezione, però, tutta sua di come deve essere intesa la lezione dell’Antico (si veda i suoi Discorsi sull’Antichità di Roma, 1582) e il significato da dare alla ricerca tipologica. È sufficiente, come indica sempre lo studioso vicentino, il raffronto tra la palladiana villa Capra «La Rotonda» e la villa Pisani «La Rocca» a Lonigo: la prima ideata come un’«astratta costruzione mentale» con i pronai orientati in direzione dei quattro punti cardinali, la seconda dall’impianto rigorosamente unidirezionale dove si distinguono «nettamente facciata e fianchi»; l’una è espressione dell’universo tolemaico, l’altra di quello kepleriano.

Il rigore dell’ordine
Il paragone con Palladio, che due generazioni dividono da Scamozzi, essendo l’architetto della Basilica nato nel 1508, mentre il nostro nel 1548, potrebbe proseguire con l’architettura teatrale dell’Olimpico, del quale Scamozzi eseguirà la scena con le cinque strade «a ventaglio», e quella all’Antica di Sabbioneta dall’indiscutibile superiorità funzionale. Nella «mente» del più giovane architetto vicentino il rigore dell’ordine vuole essere un argine all’empiria, all’arbitrio, alla «dissoluzione delle certezze umanistiche» che troverà saldi riferimenti religiosi e ideologici nel dogmatismo postconciliare e controriformato anche se non coinciderà con l’arte gesuitica (Jesuitenstil). Come si è detto sopra la ricostruzione del percorso di erudizione e conoscenza di Scamozzi rivelato nei suoi disegni e nei libri, con cura da lui raccolti e a margine annotati, è un passaggio fondamentale non solo della sua produzione architettonica, ma della diffusione del classicismo in Europa. Alla divulgazione trattatistica si interessò direttamente come curatore della prima opera completa di Sebastiano Serlio redigendo un Indice copiosissimo (1584) utile al lettore perché insieme glossario e commentario.

Tuttavia al compito di una «risistemazione linguistica» dei codici classicisti – svolta già da Palladio – Scamozzi ebbe il destino di contribuire post mortem. Alla sua scomparsa, deceduti prima di lui i suoi sei figli, i beni del suo studio furono lasciati a un giovane vicentino con l’impegno di custodirli. Così non accadde e il librario olandese Giusto Sandler entrò in possesso delle copie dell’Idea e di altre carte scamozziane, smerciando il tutto sul mercato nordeuropeo. Da qui la fortuna critica del «canone vincolante», come si andò definendo oltralpe (Olanda, Inghilterra) tra XVII e XVIII secolo. Il progetto di Scamozzi si configurava, però, «di impronta assai più ampia, filosofica e universale» (Oechslin) anche se la malasorte lo rese profondamente incompreso e così vane tutte le sue fatiche intellettuali per coniugare architettura e scienza.