Una processione di silhouettes scure sugli argini del Tevere, nel tratto che corre tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto. Racconterà la «biografia» di Roma e si materializzerà nel giorno in cui, secondo la leggenda, la città capitolina vide la luce, il 21 aprile.

Il fregio Triumphs and Laments, per il quale l’artista sudafricano William Kentridge ha speso un decennio della sua vita, coprirà cinquecentocinquanta metri di muraglione, che verranno «percorsi» da ottanta figure, alte circa dieci metri. Ma non tenterà di edulcorare il mito della fondazione: un po’ come fece Martin Scorsese con il kolossal Gangs of New York, si parte nel sangue, con il delitto fratricida di Romolo per terminare con un altro assassinio, quello di Pierpaolo Pasolini all’Idroscalo di Ostia. In mezzo, sfilano i bombardamenti del quartiere popolare di san Lorenzo e momenti della Dolce Vita felliniana. Un assaggio di quegli schizzi in anteprima si può gustare alla Biennale di Venezia, nel padiglione italiano a cura di Vincenzo Trione.

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Kentridge ha presentato il suo wall drawing al Macro, sostenuto dall’associazione promotrice Tevereterno (fondata nel 2004 dall’artista americana Kristin Jones). Il progetto, proprio come la Storia che, come ribadisce lui stesso, «ha sempre le sue vergogne», ha superato infinite peripezie burocratiche per poter diventare realtà. Ma l’artista si è dimostrato un buon atleta della pazienza, un temporeggiatore doc. Ha dovuto ingoiare amaramente un lungo stop da parte della Soprintendenza (l’Ardis e le Autorità di Bacino avevano invece dato parere positivo) che sembrava definitivo. Lo scontro si giocava sulla presunta invasività di quell’opera che andava a collocarsi su un’architettura muraria sottoposta a vincolo – gli argini risalgono ai primi del ’900. In più, la tecnica sperimentata da Kentridge, getti di vapore acqueo che avrebbero rimosso la patina nerastra dai contorni delle figure, disegnando in negativo, era stata giudicata troppo «violenta». Una volta scoperto, dopo studi condotti con meticolosità, che si sarebbe agito soltanto su un sostrato biologico, sostanzialmente muffe dovute all’ambiente umido e non sui segni dell’inquinamento, tutto si è semplificato. Happy end e il progetto ha preso il via.

Niente da dire sul fronte economico: soldi pubblici zero – solo patrocinii – il sostegno è tutto a carico delle tre gallerie che rappresentano William Kentridge (fra cui Lia Rumma), alcuni sponsor privati e un fundraising ancora in corso. La previsione di budget, in via di assestamento, è di ottocentomila euro, compresi gli spettacoli del vernissage.

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Triumphs and Laments è un lavoro immenso che, però, sarà temporaneo, svanirà con il passare dei mesi, riassorbito dagli agenti atmosferici. Le celebri ombre cui Kentridge è solito affidare l’affabulazione della vita sociale e politica del mondo (soprattutto, del suo Sudafrica e del capitalismo, pervasivo e cannibalico) vengono alla luce per «via di togliere»: le sagome in stencil dei disegni, appoggiate sul muraglione che argina il fiume, verranno poi pulite nei loro contorni con un vaporizzatore. Le silhouettes quindi saranno costituite dalla materia organica rimasta sotto gli stencil e si prevede che nel giro di pochi anni spariranno, nuovamente inglobate dalla patina biologica e dalle emissioni dell’inquinamento urbano. D’altronde, già Kristin Jones, nella parata di lupe romane She-Wolves del 2005 ricorse a questa tecnica reversibile e di quel branco di belve selvagge a passeggio lungo il fiume oggi non è rimasto che il ricordo.

L’idea di Kentridge è che la Storia proceda di pari passo con la quotidiana «usura» dei luoghi: anche una genealogia leggendaria come quella di Roma non può far altro che tornare nel buio del suo «non vissuto». E quella evanescenza è un antidoto contro la retorica. Lui, lo vedremo al lavoro con la sua squadra da marzo; solo al tramonto del 21 aprile 2016 la sua opera verrà mostrata al pubblico, accompagnata da uno spettacolo dal vivo, gratuito, che si protrarrà fino al giorno dopo, riproposto per quattro volte: due processioni in movimento – i trionfi in chiave maggiore, i lamenti in chiave minore – con ombre danzanti che «doppieranno» i fregi del muro. La musica è stata composta da Philip Miller, collaboratore storico dell’artista di Johannesburg: si va dalla kora africana al cimbalom dei Balcani, passando per i ritmi della tradizione italiana, tra Salento e tarantella napoletana, con un’orchestrazione di ottoni, fisarmonica e percussioni.