Chiuso quasi interamente nei corridoi anonimo/labirintici di un’agiata abitazione situata in un villaggio residenziale californiano, il primo La notte del giudizio (2013) era uno di quei film piccoli e cattivi, fatti con poco e nemmeno troppo bene, che «sfondano» a sorpresa grazie a un’idea forte che li sostiene. Visto il successo, il regista/sceneggiatore James DeMonaco (adesso con alle spalle i muscoli della Universal) ripropone la stessa idea in questo numero 2 che, oltre a essere ancora più cattivo, è molto più ricco, più ambizioso e più affascinante dell’originale.

La premessa è identica: una volta all’anno, di notte, per un arco di dodici ore, agli americani è concesso di purgare i loro peggiori istinti, desideri e pulsioni, commettendo crimini ai danni dei loro simili su cui le forze dell’ordine non possono intervenire, e che resteranno impuniti. Il risultato di questo sanguinario rito di purificazione annuale, sanzionato dal governo, sarebbero tassi di crimine e disoccupazione bassissimi.

Dalla relativa sicurezza della gated community, DeMonaco porta Anarchia-la notte del giudizio nelle strade. E nemmeno di una città qualsiasi, bensì di Los Angeles, uno dei luoghi classici del western metropolitano.Se il primo film, con quella sua aura di darwinismo sociale, evocava una vena di piccoli horror politici come per esempio Society di Brian Yuzna, lo spirito dietro ad Anarchia è chiaramente quello di John Carpenter.

Nel 2005 DeMonaco aveva scritto l’apprezzabile remake di Distretto 13 le brigate della morte, e gli echi del tesissimo assedio di Precinct 13, quel senso della caccia gatto-topo, sono molto presenti nel film del regista, come anche la devastante satira politica già rilevata in uno dei grandi capolavori carpenteriani, Essi vivono.

L’elemento della lotta di classe era già in primo piano in La notte del giudizio, con i ragazzi biondi e ricchi, i volti nascosti da maschere grottesche, che inseguono un poveraccio che si rifugia a casa di Ethan Hawke, e i vicini multimiliardari assetati di sangue e armati di machete. In Anarchia diventa chiaro che il governo, non solo sanziona la violenza selvaggia della notte di purificazione, ma la usa per nascondere una metodica operazione di pulizia etnico/sociale condotta da squadracce paramilitari armate fino ai denti e vestite di nero che, scaricate da tir decimano gli abitanti dei quartieri poveri e delle case popolari.

All’inizio del film, una scritta sullo schermo elenca, tra i risultati positivi derivati dall’introduzione del rituale, anche «un numero sempre minore di persone che vivono sotto la soglia della povertà». Ma i miserabili sono meno perché, se non si uccidono a vicenda, ci pensa Uncle Sam…

La storia e i personaggi non hanno nulla a che vedere con quelli del capitolo precedente. Li incontriamo all’inizio, mentre il sole sta calando velocemente: una giovane coppia (Zach Gilford e Kiele Sanchez) la cui auto si rompe su un ponte deserto al momento sbagliato. Una madre e una figlia (Carmen Ejogo e Zoe Soul) che si erano trincerate nel loro appartamento nei projects, ma vengono costrette alla fuga dall’irruzione dei parà e un uomo armato (Frank Grillo che non è Kurt Russell ma ha la giusta aura «B») che – invece di nascondersi, all’arrivo del buio esce, presumibilmente diretto verso una missione di vendetta di cui non sappiamo nulla. Trovatisi insieme per caso i cinque attraversano la città per cercare asilo in una casa sicura e un’automobile.

Evitando brillantemente di cadere nella trappola della parabola politico/sociale troppo simmetrica, DeMonaco introduce nello script, ad alto tasso di anarchia, una manciata di scenari diversi – il lurido padrone di casa che vuole uccidere le donne che lo hanno rifiutato, una signora grassa assetata di sangue perché è stufa di essere umiliata, un night club di multimiliardari in cui si praticano cacce all’uomo come se si trattasse di bestie feroci… E una banda di rivoluzionari comandata da un leader carismatico che si chiama Carmelo.

Il film è veloce, compatto, arrabbiato e- se non elegante come Carpenter- comunque efficace. L’idea continua ad essere forte e non solo regge bene questo suo primo sequel, ma ha il potenziale di evolversi in una di quelle franchise rituali di successo, come i Saw o i Final Destination.