I capricci dell’editoria italiana sono imperscrutabili. Entri in libreria e trovi gli scaffali colmi delle indagini condotte nell’ultimo paesetto scandinavo dal più sconosciuto tra i detective, però se chiedi di Mickey Spillane i commessi reagiscono con sguardo vitreo, e se cerchi l’opera di Cornell Woolrich devi dargli la caccia tra le pile di Gialli Mondadori nei negozietti dell’usato. La coppia Boileau-Narcejac, però, fino a pochi mesi fa non la trovavi neppure lì. Cancellata e dimenticata. Fuori commercio sino a quando Adelphi ha inaugurato la ripubblicazione delle loro opere complete. Le incantatrici (pp.198, euro 18), uscito per la prima volta nel 1957 come Les magiciennes, è il secondo titolo della serie.

L’accostamento tra Woolrich e la pregiata coppia francese è lecito, pur con tutte le differenze del caso. Sia il solitario e tormentato newyorchese che i due francesi tentavano scientemente, negli stessi anni, di forzare i confini del noir sino a invadere il territorio della letteratura mainstream, e costruivano le loro trame sul modello dell’incubo a occhi aperti. Pierre Boileau e Thomas Narcejac (nom de plume adottato da Pierre Ayraud) però erano soprattutto allievi di Georges Simenon. Il loro passaporto per espatriare dalla terra del puro poliziesco era un’attenzione costante, meticolosa, modulata sulle note di una crescente angoscia, per la morbosità. Ma se il grande scrittore belga è maestro insuperato nel rintracciare la ragnatela di passioni morbose celata dietro il velo dell’apparente normalità, e nello spiare il suo silenzioso montare fino a esplodere in una tragedia imprevedibile, i due francesi seguono il percorso opposto: mettono in campo situazioni estreme, nelle quali la morbosità è da subito portata all’esasperazione e l’epilogo fatale è palesemente inevitabile.

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Pierre Boileau e Thomas Narcejac

Non a caso i due scrissero il loro capolavoro, D’entre le morts, pensando che il massimo regista della morbosità, Alfred Hitchcock, ne avrebbe potuto trarre un grande film. Hitchcock ne trasse la sua opera più morbosa e cupa: Vertigo, in Italia La donna che visse due volte. Le incantatrici, scritto tre anni dopo, riprende e capovolge lo stesso tema della doppia identità. Lì la stesa donna incarnava due persone diverse, qui due gemelle perfettamente identiche devono fingere di essere una sola ragazza per ingannare il pubblico, facendogli credere di trovarsi di fronte a un eccezionale gioco di prestigio. A interpretarle, nel film che fu tratto dal romanzo nel 1960, furono Alice ed Ellen Kessler.

Ma non sono Hilda e Greta, le belle tedesche che non spicciano una parola di francese, le protagoniste del romanzo: è Pierre Doutre, figlio di illusionisti, costretto a seguire le orme del padre, grande prestigiatore. Adolescente nervoso e sensibile, Doutre cresce in un collegio. Il padre si materializza un paio di volte l’anno, la madre neanche quelle. Cresce soffrendo la differenza tra la sua famiglia, che vive vendendo illusioni, e quelle dei compagni più normali. Alla morte del padre, Pierre ne deve prendere il posto. Deve imparare il mestiere, diventare svelto di mano, imparare a distrarre il pubblico al momento giusto. Deve lavorare al fianco una madre che scopre con vent’anni di ritardo un imperioso istinto materno, venato forse anche di desiderio incestuoso.

Il ragazzo è dotato, ma difetta di esperienza. Madre e figlio fanno la fame finché la donna s’inventa uno spettacolo tutto centrato intorno alle gemelle, fatte passare per una sola illusionista capace di scomparire e riapparire oltre ogni umana possibilità, e spopola. Le tedesche, indistinguibili, si divertono a confondere le idee, si scambiano i ruoli, allestiscono un gioco metà perverso e metà ingenuo intorno a Pierre, che le ama entrambe, fino a che l’impossibilità di scegliere, o anche solo di distinguere, diventa per lui un’ossessione vorace e divorante.
Gli scrittori moltiplicano gli elementi di morbosità, in un crescendo in cui il finale tragico è già annunciato nelle prime righe del libro. C’è l’ossessione di Odette, maga appesantita dagli stravizi e dagli anni, per il figlio ritrovato, e la sua gelosia, forse anche sessuale, nei confronti delle gemelle. C’è il rapporto esclusivo delle due ragazze, fuse in una specie di universo separato e chiuso che l’irruzione di Pierre è destinato a infrangere. C’è soprattutto il vortice che travolge il protagonista: vorrebbe amare una vera donna, si ritrova invaghito di una immagine sdoppiata e ambigua. L’ennesima illusione. Un gioco di prestigio.

Potrebbe trattarsi di un’oscura storia di amore malato e ossessione erotica. Ma Le incantatrici è solo in superficie la cronaca di una passione amorosa morbosa. La tragedia di Pierre Doutre, figlio di gente che vende miraggi e spacciatore di trucchi egli stesso, a modo suo un artista, è la sua sete di normalità, la sua ricerca disperata di una realtà solida, tangibile e materiale. Il suo «doppio amore» diventa un’ossessione tragica perché, nell’infinito gioco di specchi che le gemelle allestiscono, anche la passione amorosa gli si presenta come miraggio ed ennesima irrealtà. Pierre Doutre è un artista che vorrebbe essere nato bottegaio, un vagabondo costretto a cambiare città e teatro ogni sera che sogna invece una casa come tutti, e finisce per detestare il proprio talento, la vita che gli è toccata in sorte, se stesso. Il vicolo cieco che non prevede altre vie d’uscita che il proprio stesso annientamento. Le pagine più forti del libro non sono infatti quelle in cui si parla di delitti, ma quelle in cui Pierre dà il massimo del proprio talento di performer artist trasformandosi in un essere inanimato, un automa che colpisce il pubblico per la sua destrezza nei trucchi ma forse, ancora di più, per la sua capacità di annullarsi. L’obiettivo che Boileau e Narcejac si erano prefissi all’inizio della loro proficua collaborazione, fare del noir una forma di letteratura a pieno titolo, non lo hanno forse mai centrato più perfettamente che in queste pagine.