Un ex campione con la bici. Che dieci anni fa completava il suo percorso da eroe. Nel settimo Tour de France in fila di Lance Armstrong c’erano gli ingredienti della magia dello sport. In giallo sui Campi Elisi, centrando il record assoluto, più in alto di Eddie Merckx, di Fausto Coppi. E nello stesso giorno del settebello francese arrivava pure l’addio dello statunitense alle competizioni. Fuoriclasse che saluta tutti nel momento più alto in assoluto. Rivali stracciati, mai vicini, con successi a cronometro e quella frequenza di pedalata sulle Alpi francesi e sui Pirenei che esaltavano il pubblico e insospettivano avversari, stampa, agenzie antidoping.

Armstrong come Bjorn Borg che appendeva la racchetta al chiodo a 26 anni con tanti Wimbledon ancora nelle corde, come Michael Jordan che lasciava i Chicago Bulls da migliore di sempre, con tre titoli Nba in fila, per onorare il sogno del padre ucciso su una highway statunitense pochi giorni prima del terzo anello con i Tori: vederlo in pedana con il cappello e la mazza da baseball. Scendere dal sellino al top. Roba per pochi eletti. Insomma, il ciclista texano si era assicurato un bel pezzo di letteratura sportiva, oltre che di primati. Tra applausi e titoloni, perché Armstrong era anche quello che venti anni fa, 19 luglio 1995, dedicava la tappa del giorno dopo alla memoria di Fabio Casartelli, amico e compagno di squadra morto 24 ore prima sulle strade del Tour. Ed era anche il cowboy amatissimo dagli americani che con lui riscoprivano il piacere di far fatica in bicicletta, la passione per sudore, rapporti, salite, discese.

Lui, già campione del mondo su strada a Oslo, che era sceso forzatamente da quella bici per combattere il cancro ai testicoli, tra cure durissime e la volontà di ritornare, alimentando lo spirito guerriero di tanti ammalati che lo avevano eletto modello. A un congresso sul cancro a Montreal si presentava così: «Mi chiamo Lance Armstrong, sono sopravvissuto al cancro, ho cinque figli e, naturalmente, ho vinto sette Tour de France». Dieci anni dopo, la bici di Lance Armstrong si trova ancora nella polvere, nello sterrato, come fosse seppellita tra fango, pioggia, polvere nella foresta di Arenberg, il cuore della Parigi-Roubaix. In mezzo, tra bugie, inchieste, processi, quintali di articoli tra carta e web, un’incredibile faccia tosta a presentarsi ancora con la faccia del ciclismo pulito, soprattutto il doping che tutti sospettavano ma a cui nessuno voleva realmente credere.

Mai confessato, per anni, prima di cedere due anni fa nel salotto statunitense per eccellenza, a pochi centimetri da Oprah Winfrey. Imbroglio sistematico, il campione che si stacca dalla sua immagine vincente, lontana, irraggiungibile come la vetta scarna del Mont Ventoux scalato assieme a Marco Pantani a fine anni Novanta. Epo, trasfusioni, testosterone, ormone della crescita. E l’amara certezza confidata alla signora della tv Usa che senza pratiche illegali mai avrebbe messo in fila 7 Giri di Francia. Lance aveva il fiato sul collo dell’Usada, l’agenzia antidoping statunitense che gli dava la caccia, un faldone da oltre 200 pagine di accuse con le testimonianze di 11 compagni di squadra alla Us Postal.

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E Armstrong era, è tuttora la figura barometro della più complessa macchina doping mai vista nello sport professionistico, così è scritto nell’inchiesta. Per un doping più ramificato, strutturato rispetto a quello della Germania dell’Est che pure produceva campioni in provetta. Ha prodotto danni Armstrong, alla credibilità già minata del ciclismo, anche a ex compagni di squadra come Filippo Simeoni, con la sua deposizione al processo contro il dottor Michele Ferrari, un’enciclopedia nell’universo doping, tra emotrasfusioni, cortisone, Gh.

Medico inibito da Usada, Federciclismo italiana e Coni per uso di pratiche dopanti, con clienti come lo stesso Armstrong oppure il maratoneta Alex Schwazer, caduto anche lui nel fossato dell’illecito. Simeoni confessava – beccato per doping – e tirava in ballo tutto il sistema senza mai fare il nome del texano che lo definiva mentitore assoluto, che in pratica con il suo potere in gruppo e sugli sponsor lo estrometteva dal circus della bici professionista, mentre staccava assegni per Ferrari, un milione di euro tra il 1996 e il 2006. Il costo del doping. È stato lui nei giorni scorsi a fomentare i sospetti intorno a Chris Froome, il britannico del Team Sky che sta stravincendo, di nuovo, la Gran Boucle. «Chiaramente Froome, Porte, Sky sono molto forti. Troppo forti per essere puliti? Non chiedetemelo, non ho elementi», così Armstrong via Twitter, dopo la decima tappa della corsa francese, La Pierre-Saint Martin, con arrivo in salita, con Froome che si avvantaggiava in classifica generale per la crisi di Vincenzo Nibali e di Nairo Quintana. Proprio da lui, il sospetto.

Le infinite ombre su una disciplina che ha pagato tanto, che si è sforzata di uscire dal labirinto doping, una piaga non ancora del tutto sconfitta, con tre casi di positività negli ultimi tempi. Froome, come lui riesce a scalare i monti francesi con una frequenza di oltre 100 pedalate al minuto. E il suo team si è visto costretto, come due anni prima a fornire i dati alla stampa sulle prestazioni sportive, per smentire le teorie sul doping di una tv francese, France 2, secondo cui gli exploit di Froome non sono spiegabili, non appartengono alla realtà ma sarebbero l’effetto di uso di sostanze illegali. È tornato in Francia in questi giorni, Armstrong. Di nuovo al Tour, quattro anni dopo il tentativo di ritornare a vincere in bici a 39 anni, da controfigura dello schiacciasassi con il trucco da 22 successi di tappa, 11 cronometro individuali.

Un paio di tappe del percorso di quest’anno con la sua squadra amatoriale per la raccolta fondi contro il cancro, un ritorno trasmesso in diretta televisiva, con limitato entusiasmo del pubblico, nell’indifferenza di tanti corridori, compreso lo stesso Froome secondo cui non sarebbe stato un evento la presenza del cowboy alla Grand Boucle. Forse si è trattato di un estremo tentativo da parte di Armstrong di dare una ripulita a quella bici ricoperta da polvere e fango. Negli Stati uniti a suo carico c’è un processo civile messo in campo dal Dipartimento di giustizia americano per il doping sistematico che l’ha portato sul primo gradino del podio al Tour dal 1999 al 2005. Con Armstrong che prova a evitare scottanti domande anche sulla sua vita sessuale, per una relazione con una testimone chiave nel processo per doping, presente in un ospedale in Indiana nel 1996 quando Armstrong, in cura per il cancro, confessava ai medici l’utilizzo di sostanze dopanti.

E sempre negli Usa ha perso una causa con la compagnia di assicurazioni Sca Promotions, uno degli ex sponsor, che nel 2006 gli aveva versato 7,5 milioni di dollari relativi per i sette successi consecutivi al Tour de France. Dovrà pagarne dieci. Decisiva l’ammissione del texano di uso di doping sistematico in carriera e il fatto di aver mentito durante il processo. Bugie dolorose per la sua tasca e per la reputazione della bici.