Marie ai num, si sui de France: suona così, nell’antico francese parlato alla corte d’Inghilterra del XII secolo, la firma che una delle più grandi scrittrici medievali, Maria di Francia, ha lasciato nell’epilogo delle Fables, la sua raccolta di favole. Ed è tutto quanto sappiamo di lei: «il mio nome è Maria, e vengo dalla Francia». Il paradosso di una traccia biografica debolissima per una personalità poetica che giganteggia nella letteratura francese ed europea del suo tempo, per quanto le siano riconosciute tre sole opere: oltre alle Fables, il racconto di una visione oltremondana dell’Espurgatoire seint Patriz e i Lais, i brevi racconti in versi – è lei l’inventrice del genere – con i quali figure e storie struggenti della tradizione celtica fanno il loro ingresso ufficiale nella letteratura europea.

Ad attribuirle un’identità storica, ultima dei molti che ci hanno provato senza risolverne il mistero, è ora Chiara Mercuri, che in un libro da poco pubblicato, La nascita del femminismo medievale, Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese (Einaudi «Storia», pp. XI-201, euro 22,00), la identifica con Maria contessa di Champagne (1145-1198), mecenate e protettrice di poeti in una delle corti più raffinate della Francia medievale. Rivolgendosi a un pubblico non accademico, l’autrice recupera in realtà, senza avvertire alcun bisogno di citare la fonte, un’ipotesi avanzata più di un secolo fa da un erudito austriaco, Emil Winkler, per più di un motivo poco difendibile (in primo luogo per il radicamento della produzione di Maria di Francia in ambiente esclusivamente anglonormanno, a dispetto del toponimico).

Ma la tesi sostenuta nel libro e ben dichiarata dal titolo va oltre: Maria di Francia/Champagne sarebbe stata l’artefice della rivolta ideologica che gli storici della letteratura hanno racchiuso nella formula – scolastica quanto tuttora sfuggente – di ‘amore cortese’; e questa formula sarebbe da leggere in chiave femminista, come manifesto di un’emancipazione delle donne dalla brutalità della società feudale calata dal nord dopo le invasioni dei popoli germanici. Co-protagonisti e insieme strumenti di questa rivolta, due intellettuali della corte di Champagne, Andrea Cappellano e Chrétien de Troyes: autore, il primo, di un trattato in latino sull’amore, il De amore, e il secondo del Lancelot o Le chevalier de la charrette, un romanzo che nella storia di Lancillotto e Ginevra celebra il modello esemplare di un amore sublimante e necessariamente adulterino, nel quale l’uomo accetta un asservimento incondizionato alla donna.

Insieme ai Lais, i due testi vengono forzati a dimostrare una lettura ideologizzante che ruota intorno alla libertà di scelta sessuale delle donne e alla parificazione sociale, come ‘mattoni’ della struttura concettuale dell’amore cortese: un ideale che da un lato supera e anzi destituisce il rapporto amoroso all’interno del matrimonio, dall’altro promuove il riequilibrio delle classi attraverso l’opposizione della nobiltà spirituale del perfetto amante alla nobiltà di sangue a fondamento della società feudale. Maria di Francia viene così eletta a ideologa non solo di un femminismo archetipico, appiattito sulla sola emancipazione sessuale, ma anche di quel binomio ‘amore e nobiltà’ che dalla corte di Champagne sarebbe stato piantato come un seme fecondo nella cultura europea.

L’idea di un atto fondativo di questa particolare concezione dell’amore non è originale ma rispolvera un articolo pubblicato nel 1883 da uno dei primi e più importanti filologi romanzi, Gaston Paris (che è poi il padre stesso della formula amour courtois), il quale riconosceva proprio nel De amore e nel Lancelot la rappresentazione, o meglio la codifica convergente, di un modello erotico elevato a ideale etico. Si può discutere di quanto la tesi di Paris – peraltro immune da implicazioni femministe – possa essere superata e per molti aspetti datata, legata a doppio filo agli umori del decadentismo francese (è del 2012 una monografia di Philippa Kim Ji-hyun interamente dedicata all’argomento: Pour une littérature médiévale moderne. Gaston Paris, l’amour courtois et les enjeux de la modernité, Champion).

È invece poco discutibile che, qualora abbia avuto effettivamente luogo, un dibattito sull’amore alla corte di Champagne negli ultimi decenni del XII secolo abbia espresso non una ‘rivolta’ ma piuttosto il riverbero, il punto di approdo di una visione dell’amore che già da decenni circolava nelle corti aristocratiche della Francia.
Quella di Mercuri appare così un’operazione, più che riduttiva, banalizzante, che rimuovendo del tutto il contesto culturale affronta in modo abborracciato il senso e la complessità dei testi chiamati in causa.

Se infatti di «libertà sessuale» della donna, di un concetto sublimante dell’amore e dello stesso rapporto tra merito e nobiltà parlavano già da poco meno di un secolo i trovatori – i grandi poeti in lingua d’oc della Francia meridionale –, aporie e apparenti incoerenze fanno capolino dagli stessi testi: dalle scomode contraddizioni del citato De amore alla pacifica misoginia che si riconosce tra i versi delle Fables della stessa Maria di Francia, quando rappresenta le donne come talentuose ingannatrici, spesso responsabili delle disgrazie cadute sulla testa di un uomo.

Le Fables, come anche l’Espurgatoire, sono del resto semplicemente rimosse dall’orizzonte argomentativo di Mercuri, e lasciano il posto a fraintendimenti e approssimazioni, con tanto di ammiccamenti all’attualità che meccanicamente punteggiano il discorso: come quando si afferma che «l’incontinenza sessuale (…) era punita solo nelle donne. Così è stato in Italia fino al 1968» (pp. 99-100); oppure che nel Medioevo «la sopravvivenza dei figli dipende dall’esclusiva volontà o meno dei padri di prenderli in carico, come ancora oggi accade dove manca il lavoro femminile e le strutture per l’infanzia sono inesistenti» (pp. 69-70); o si rileva che il rifiuto espresso nel De amore dei rapporti omoerotici non rechi traccia di un avallo di Maria di Champagne, lasciando intendere che la contessa, al contrario dell’autore e suo protetto, avesse una mentalità aperta a rivendicazioni gender (p. 15). Quanto agli amanti che nella società medievale di nuovo stampo mercantile «non si curano affatto del bene, ma pensano solo all’estasi o all’ecstasy» (p. 103), sfugge, tout court, il senso.

Perniciosi, se si considerano la destinazione divulgativa del libro, il prestigio dell’editore e le ricadute didattiche da scongiurare, sono poi certi strafalcioni genuini: ad esempio la definizione di trobar clus che si dà a p. 176 o la confusa quanto erronea enunciazione del metodo filologico di Joseph Bédier, nel cammeo biografico sul rapporto con Gaston Paris che chiude il saggio. Nella rappresentazione di una società compressa tra la violenza dell’elemento germanico e presunte istanze femministe, a essere rimossa è anche e soprattutto la cultura clericale latina, al cui interno si riconoscono fra XI e XII secolo esperienze e figure di emancipazione femminile già in chiave cortese e forme di autonomia intellettuale delle donne. Prima fra tutte, quella di Eloisa, che nel rifiuto di un matrimonio riparatore con Abelardo la libertà di scelta nell’amare l’ha non solo dichiarata, ma vissuta e a caro prezzo pagata. Un’autonomia intellettuale che la cultura medievale le riconoscerà senza condanne, trasfigurando il personaggio storico in un’eroina: la très sage Heloïs, la sapiente, la molto savia Eloisa della più famosa delle ballades di François Villon.