«Pizzi pizzi trangola/ la morte di San Trangola/ San Trangola e Pipì/…» Deve essere stata questa filastrocca tarantina a venire in mente all’autore, Cosimo «Mimmo» Quaratino, in un momento di piena della memoria, quello che al primo vuoto si riversa senza sosta. L’idea è nata, racconta l’autore,durante l’ultimo saluto al fantastico Renato Nicolini, amico e compagno di tante battaglie. Un addio che è diventato urgenza: come non disperdere le esistenze, politiche e intime, come riannodare l’origine al deserto attuale?
Così è nato Pizzi pizzi Trangola (Edizioni Fuorilinea, prefazione di Luciana Castellina, pag. 450, 16 euro – per un guadagno augurabile destinato a sostenere scuole autogestite in Gambia). Un’autobiografia originale sospesa tra pubblico e privato, che cancella la maestà irriguardosa della Storia per concedersi alla condivisione comune delle “nostre” storie, chiamando intorno a sé, come per una filastrocca, ad essere complici e a raccontare. Rifiutando il rimpianto, per trovare invece adesso ascolto e spazio.
STATO DI NECESSITÀ
E visto che la filastrocca Pizzi pizzi Trangola serviva per la conta, utile ma giocosa come ogni parola della tradizione popolare, il libro è scritto in stato di necessità. Per non disperdere quel febbrile dipanarsi della propria vita e resocontarla alla nipote Matilde, tentando l’impossibile: opporsi alla stagione di facebook, tweet, chat, mail, whatsapp. Quell’armamentario inscatolato in promesse automatiche di felicità comunicativa che, come macchina, ormai si è sostituito quale simulacro al rapporto e alla comunicazione diretta tra gli esseri umani. Così lo sforzo vitale dell’autore risulta a leggerlo divertente: scrive Luciana Castellina, «per i più vecchi, perché senza retorica da reduci vi si racconta un bel pezzo della nostra vita comune, per i più giovani, perché vi troveranno cosa è stata la bella politica. Per tutti la scoperta di un’Italia che non c’è più ma che va ricordata».
La strategia del libro è la ricerca dell’origine. E valgono le due foto inter-testuali, in copertina un bambino in canottiera e cappellino bianco che ha in bocca la pipa del sodale nonno Mimì, dentro l’altra immagine dell’autore con una matura e accesa pipa in bocca. Un continuum «vizioso» che lo riconnette alla complessità di una vasta e allargata famiglia tarantina dove le origini operaie si mischiano a quelle borghesi e a una città, Taranto, allora solo stupefacente nei suoi due mari. Non ancora, insomma, quella città dalla ferita aperta e sanguinante tra bisogno tragico di salute e realtà del lavoro, l’enigma storico irrisolto della Sinistra e dell’organizzazione sindacale operaia . C’è la scoperta della camera oscura presso il fotografo Maletiempo e del miracolo delle immagini che emergono inconsapevoli; c’è l’attesa nelle piccole stazioni della ferrovia, annuncio di luoghi lontani; c’è l’approccio alla fatica nel rifiuto di imparare a remare con il pescatore Cilluzzo.
Da questo incipit che non può fare a meno dell’infanzia, parte quella che l’autore chiama «pesca a strascico» e che, arrivato a Roma – dove le castagne do’ prevete diventeranno mosciarelle e i focheracci riscalderanno altri desideri -, attraversa gli anni Sessanta e Settanta fino ad approdare negli interstizi del lavoro nelle pieghe dello Stato. Con uno stile che intenzionalmente privatizza l’esperienza pubblica e insieme pubblicizza ogni sentimento privato, anche il più nascosto. Come gli incoffessati innamoramenti della sua esistenza.
OBLOMOV
Cosimo «Mimmo» Quaratino, che nonno Mimì aveva soprannominato da bambino «Oblomov» per la sua distanza indolente, si trasforma in un impaziente e irrequieto organizzatore politico. Generoso e incompreso come l’abbiamo conosciuto all’inizio dell’avventura de Il Manifesto, rivista prima, organizzazione e giornale poi, e poi ancora organizzazione e giornale e via dicendo. Mimmo era il nostro capo nel primo nucleo raccolto al Circolo di Monte Sacro, residuo della sezione del Pci dalla quale tanti compagni erano stati radiati e tanti altri da tutta la Federazione romana C’era la convinzione che gli eredi del comunismo erano proprio i compagni del Manifesto che tesseva le sua ragioni sulla crisi italiana e internazionale nelle pagine della rivista eretica e per questo messa fuori dal partito. Con Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Luigi Pintor, Lucio Magri, Valentino Parlato, Filippo Maone e Aldo Natoli. Aldo Natoli a Roma era la storia dei comunisti, non altro. Sul Pci c’è da parte dell’autore un capovolgimento di senso che solo la passione può produrre: che i nomi «alti» di protagonisti con cui entra in contatto diretto come Giorgio Napolitano diventano piccoli di fronte all’emergere dal basso di nomi di militanti come Sergetto Ferrante, Bucionero, Luciano Jacovino, Franco Mulas per dire solo di alcuni. E di che cosa eravamo eredi, mentre il Pci cambiava già pelle, sospeso tra fedeltà all’Urss e deriva innovativa ma solo riformista nonostante l’esplodere del ’68 e dell’autunno caldo operaio del ‘69? Di quella diversità che, dispersa nella miriade di sezioni nella vita pulsante romana, dimostrava che realtà materiale poteva essere vissuta avendo principi e valori diversi da quelli che eravamo costretti a subire. Donne e uomini che ogni giorno e contro avversari agguerriti, per strada, sul lavoro testimoniavano questa diversità.Che fu difficile da comunicare anche ai gruppi della sinistra extraparlamentare. E con una capacità organizzativa che travasò nel Manifesto. Quaratino è stato – e glielo riconoscerà anche Enrico Berlinguer ancora segretario del Lazio – il motore della protesta a sostegno del popolo vietnamita contro la guerra Usa. Per una stagione che durò almeno otto anni. Una mobilitazione che si avvalse della direzione di Aldo Natoli che promosse anche un incontro diretto con rappresentanti vietnamiti.
AGLI ESTERI
Quando nacque il quotidiano comunista il manifesto, Mimmo Quaratino fu tra i primi a coinvolgersi nella sezione esteri, con commenti, cronache e l’attenzione a tutti i movimenti internazionali. In particolare alla lotta del popolo palestinese contro l’occupazione militare israeliana. Fu il primo inviato del nostro giornale, a Beirut, come racconta nel libro in un prezioso capitolo, nei campi profughi a testimoniare l’allora protagonismo delle forze della sinistra palestinese. Dopo il golpe militare di Pinochet in Cile contro l’esperienza di Allende, incontrerà Miguel Enriquez leader del Mir che di lì a poco sarebbe stato assassinato. Seguì Rossana Rossanda e K. S. Karol in Portogallo, con una delegazione del Manifesto che girò da Lisbona a Coimbra a Porto. Perché lì era scoppiato un altro 25 aprile, ancora una primavera: l’esercito si era ribellato al regime proto-fascista e il popolo stava con il Movimento delle forze armate, «O povo està com o Mfa» .
Vivendo poi negli anni Settanta le peripezie, gli errori, i tentativi del gruppo del Manifesto fino al rapporto con il Pdup. Mai facendo coincidere l’impegno politico con il suo lavoro, rifiutando dunque ogni richiesta perché venisse in redazione o all’organizzazione. Per decidere infine, nella verifica dei tempi cambiati e delle sconfitte, di dedicarsi ai poteri tangibili nel suo posto di lavoro in una struttura dello Stato. Sì, in quello «stato borghese che si abbatte e non si cambia». Per fare bene quello che si fa, suggerisce Ovidio e toccando con mano l’ambiguità-necessità dell’«istituto», della forma con cui il potere regola e condiziona la vita. Del resto non era stato Franz Kafka a scoprire la tortura degli «incidenti sul lavoro» e il socialismo nell’’Istituto delle Assicurazioni dell’impero austro-ungarico, dove lavorava a Praga?
L’autore sostiene che la sua scrittura non è stata formalmente organizzata. Sbaglia. È riuscita invece, per verità e necessità, a raccogliere il filo della sua passione. Scoprendo che la scrittura di memoria può essere anche rifiuto della nostalgia per diventare atto materiale che si ripropone al presente e non si dà per vinto. Convinto Mimmo – e noi con lui – che lo spazio per una società di liberi e uguali, dalla parte degli ultimi, è ancora tutto da riempire.