Nel Mercosur, il Venezuela resterà “senza voce”. La notizia non è ancora ufficiale, ma la decisione era già presa da tempo, a conferma delle dichiarazioni che filtrano. Argentina, Paraguay, Brasile, tre paesi membri governati dalle destre, e gli ultimi due frutto di golpe istituzionali, hanno deciso di sospendere il paese bolivariano, retrocedendolo a semplice “associato”: come la Bolivia, Cile, Colombia e altri in attesa di entrare.

Il ministro degli Esteri uruguayano, Nin Novoa, lo aveva anticipato giorni prima alla stampa, senza troppi patemi. La parziale tenuta dell’Uruguay ha evitato che i tre – la Triplice Alleanza, come li definiscono i governi bolivariani – espellessero direttamente il Venezuela. Ora Caracas può appellarsi alle regole interne del Mercosur, che prevedono un esame specifico e, prima di un’eventuale espulsione potrebbe esserle concessa una proroga. Ma, intanto, il 14 dicembre la presidenza pro-tempore passa all’Argentina. Quella che sarebbe toccata al Venezuela, in base alle regole del blocco regionale, non è stata riconosciuta dai tre paesi, e il moderatissimo Uruguay non è stato proprio un leone. Mauricio Macri ha già anticipato le alleanze a cui intende ritornare. Il suo profilo e le politiche neoliberiste a cui ha dato corso in Argentina, non lasciano dubbi.

Si tratterà solo di capire in quali termini farà fruttare l’amicizia personale con Trump che si è detto contrario al Tpp voluto da Obama. Ogni componente del Mercosur ha già imboccato la strada degli Accordi di libero commercio con l’Europa, e l’Uruguay è ben disposto al Tisa, l’accordo di libero commercio dei servizi. Il Venezuela era rimasto l’unico ad opporsi.

Il Mercosur è il mercato comune del Sur, deputato a regolare gli scambi commerciali e i dazi doganali. E infatti le tensioni interne si sono fatte sentire in presenza delle due grandi economie esportatrici ed espansive come Argentina e Brasile, anche quando al timone c’erano presidenti progressisti, come i Kirchner, Lula o Dilma: con paesi piccoli come l’Uruguay e anche con il Venezuela bolivariano, la cui debolezza strutturale nell’economia dei porti e a causa della generale dipendenza dalla rendita petrolifera, l’ha obbligata a stabilire barriere e difese. L’entrata di un paese come il Venezuela, che dedica oltre il 70% delle entrate ai piani sociali e che considera l’investimento umano quello più redditizio e produttivo, ha però impresso un altro orientamento.

Perché la richiesta venisse accolta, gli ci sono voluti 6 anni, dal 2006 al 2012. Un periodo d’oro per l’America latina progressista e di ripiego dei progetti neoliberisti a guida Usa. La trasformazione del blocco regionale era iniziata nel 2003, nel vento di cambiamento generale in corso nel continente. La crisi finanziaria del 2008 aveva poi confermato la crisi strutturale del modello capitalista e “convinto” anche una persona come Cristina Kirchner a cambiare giudizio: “Il capitalismo – aveva dichiarato a metà settembre del 2006 quand’era senatrice – è un’idea migliore del comunismo, vogliamo un capitalismo come quello degli Stati uniti”. Ma, verso la fine dell’ultimo mandato, era rimasto memorabile il suo discorso pronunciato all’Onu contro i fondi avvoltoio e per l’integrazione latinoamericana.

Al contrario, allora, il presidente venezuelano Hugo Chavez stava ridisegnando insieme a Fidel Castro il quadro delle Alleanze internazionali: all’insegna dell’inter-scambio solidale sud-sud, basato sulla mutua assistenza e senza asimmetrie. Gli schemi imposti dopo la caduta dell’Unione sovietica non avevano sancito fine della storia, né avevano portato benessere e pace, semmai avevano moltiplicato le zone di guerra. Nella ridefinizione di un mondo multipolare, il “socialismo del XXI secolo” provava a dire la sua. L’occasione per l’entrata del Venezuela fu determinata dal golpe istituzionale contro Fernando Lugo, in Paraguay. Mercosur e Unasur reagirono sanzionando il Paraguay. Che siano ora proprio il Paraguay e il Brasile di Michel Temer – un governo frutto dell’impeachment a Rousseff, che ogni giorno perde pezzi per corruzione – a dare lezioni al Venezuela in termini di democrazia, regole e diritti umani, è davvero grottesco.

Ma i tempi sono cambiati, si apre addirittura l’era Trump. La fine del ciclo progressista in America latina? O piuttosto la fine della globalizzazione neoliberista, annunciata in questa nuova fase di transizione? Macri e Temer si volgono al passato, a uno “sviluppo” che ha portato guerre e rapina e povertà, a un modello che evidentemente non funziona più. L’America latina che scommette invece su un altro tipo di sviluppo, sul rafforzamento degli stati nazionali e su riforme strutturali, sui rapporti sud-sud rivolti al mondo dei Brics, potrebbe giocare la sua partita. Pur con tutti gli ostacoli che deve oltrepassare, il Venezuela è un attore centrale, come ha dimostrato presiedendo il vertice dei Non allineati, e soprattutto, intercettando le proposte dei movimenti popolari. “Se ci espellono dalla porta, rientreremo dalla finestra”, ha detto Nicolas Maduro.