Dalla Grande Moschea di Parigi al campo di Dachau. La storia dell’imam Abdelkader Mesli era finita per lunghi anni nell’oblio. Poi nel 2011 alla morte della madre, il figlio Mohammed, che oggi ha 65 anni, scoprì nel vecchio appartamento di famiglia uno scaffale zeppo di documenti, lettere, fotografie ingiallite. Oggetti impolverati che raccontavano il passato di un uomo molto riservato e restìo a rievocare il periodo della Guerra e la sua esperienza sotto l’Occupazione tedesca.
Nato ad Orano, orfano dei genitori, Abdelkader Mesli aveva appena 17 anni quando sbarcò a Marsiglia dall’Algeria. Trovò prima lavoro come portuale e poi come muratore. Dopo un breve soggiorno in Belgio, dove fece il commesso viaggiatore e l’impiegato in un sito minerario, approdò a Parigi. La città era stretta in una cappa di paura e tensione. Per le strade e negli uffici a dettare legge erano gli occupanti nazisti e i loro collaboratori. Mesli iniziò a frequentare la Grande Moschea di Parigi eretta nel 1926 nel Quinto arrondissement in omaggio ai 70 mila caduti musulmani della Grande Guerra. Il Direttore e fondatore dell’edificio religioso Kaddur Benghabrit lo nominò imam. I due fecero il possibile per intralciare i piani dei tedeschi e venire in soccorso degli ebrei perseguitati. Mesli cominciò a stampare decine di certificati falsi che attestavano la fede musulmana delle famiglie ebree (molte delle quali erano di origine sefardita e provenienti dai paesi del Maghreb) a cui i nazisti davano la caccia. In alcuni casi, in accordo con Benghabrit, aprì loro le porte dell’edificio religioso allestendo rifugi nelle cantine che erano direttamente collegate con il dedalo dei sottorreanei della capitale. Nel documentario «La Mosquée de Paris: une résistance oubliée» realizzato da Dni Berkani l’ebreo sopravvissuto Albert Assouline racconta: «arrivai alla Grande Moschea assieme a un arabo algerino. Eravamo appena evasi da un campo di prigionia. La nostra idea era quella di fuggire in un paese del Maghreb. Pensammo di rifugiarci in un edificio religioso ma come potete immaginare non era il caso di scegliere una sinagoga. Scegliemmo la Moschea». Secondo Assouline, tra il 1940 e il 1944 più di 1700 persone passarono nei locali del grande luogo di culto musulmano.
Le voci e le dicerie cominciarono presto a circolare nel quartiere. La Grande Moschea finì sotto osservazione e Mesli venne mandato in tutta fretta a Bordeaux dove, in veste di imam, cominciò a prendersi cura dei prigionieri nordafricani rinchiusi nella prigione del Fort du Hȃ. Un lavoro rischioso che lo portò ad entrare in contatto con la Resistenza.
Dopo una soffiata, il suo nome finì nelle liste della Gestapo. Il 5 febbraio 1944 venne arrestato. Nonostante le torture Mesli non rivelò mai i nomi della rete di oppositori con cui aveva cominciato a collaborare e per questo venne costretto a salire su uno degli ultimi convogli piombati diretti verso i campi di concentramento tedeschi. Arrivo’ a Dachau, poi venne trasferito a Mathausen. Dopo la prigionia, segnato profondamente dall’esperienza concentrazionaria, Mesli ritornerà a Parigi, si sposerà e metterà al mondo due figli. La sua vita marchiata dall’orrore dei campi avrà anche un risvolto glamour: nel maggio del 1949 Mesli celebrerà il matrimonio tra Rita Hayworth e il principe Ali Khan in Costa Azzurra tra nugoli di paparazzi e invitati dal sangue blu. Una parentesi dorata prima del ritorno nella ben più modesta Bobigny, banlieue nord di Parigi dove, fino all’ultimo fu imam della locale moschea e dove morirà nel 1961.
Il figlio Mohamed, che oggi ha riannodato i fili di una memoria rimasta sepolta per decenni, racconta: «mio padre era un musulmano di osservanza sufi, una corrente dell’Islam basata su un precetto importante secondo il quale il peggior nemico dell’uomo è l’ignoranza». Il nome di Mesli l’«imam che salvava gli ebrei» non figura nelle liste dei «Giusti tra le nazioni» che hanno messo in pericolo la propria vita per salvare degli ebrei dallo sterminio e chissà se in futuro vi figurerà. «Questa onorificienza non è mai stata attribuita a nessun musulmano francese o maghrebino nonostante i diversi casi recensiti – racconta lo scrittore e giornalista Mohammed Aissaoui che sull’aiuto fornito agli ebrei perseguitati da persone di fede musulmana ha condotto accurate ricerche poi raccolte nel libro «L’Etoile jaune et le croissant» – sollevare il velo sui legami tra ebrei e musulmani purtroppo oggi è un tabù. Eppure la frase Chi salva una vita salva l’umanità intera è contenuta sia nel Talmud che nel Corano. Sarebbe ora che qualcuno si decidesse a riaprire questa pagina dimenticata di Storia dando il giusto riconoscimento all’ex Direttore della Grande Moschea di Parigi e all’imam Mesli.