Ogni viaggiatore, si sa, viaggia a modo suo, perfino nell’era del turismo organizzato, figurarsi quando questo tipo di sport non esisteva. C’è chi guarda qui e non là, chi passa indifferente accanto a qualcosa che un altro osserverà e descriverà nel suo resoconto. Sicché i diari di viaggio sono oggetti singolari ed eterocliti, difficilmente riconducibili a una tipologia. Il Giornale del viaggio in Italia di Michel de Montaigne attraverso la Svizzera e la Germania è un testo non solo singolare, ma per molti versi problematico e paradossale. Non è chiaro a quali intenzioni risponda l’itinerario frastagliato, asistematico e stravagante seguito dal gentiluomo e dai giovani che lo accompagnano (il fratello minore, il cognato, il nobile Charles d’Estissac) fra il settembre del 1580 e il novembre del 1581.
Inoltre questo Giornale detto di Montaigne è un ibrido. L’autore dei Saggi ne ha redatto la seconda parte, ma tutta la prima, dall’inizio del viaggio fino all’arrivo a Roma, non è di mano sua, bensì di qualcuno che fa parte della brigata: un «segretario» di cui s’ignora l’identità, che ha il compito di organizzare la spedizione – bagagli , alloggi, cavalli. Poiché Montaigne viaggia a cavallo: «è la posizione (dice nei Saggi) in cui mi trovo meglio, sia da sano che da malato»; e poi «non posso sopportare a lungo (e lo sopportavo più difficilmente in gioventù) né cocchio, né lettiga, né battello; e odio ogni altro veicolo che non sia il cavallo, e in città e in campagna». Oltre a provvedere ai servizi logistici, questo segretario redige anche il diario, forse di sua iniziativa. Come saperlo? Il manoscritto, ritrovato e pubblicato nel Settecento, poi perduto, mancava delle prime pagine, che (precisa l’editore Meunier de Querlon) parevano esser state strappate. Comunque il redattore non è un lacchè, ma probabilmente un intellettuale a corto di mezzi che s’improvvisa factotum della compagnia per poter recarsi in Italia senza spendere. E non è un semplice amanuense che scrive sotto dettatura, come molti hanno sostenuto: raccoglie la voce di Montaigne, ma mentre ne riferisce le esperienze, i giudizi spesso imprevedibili, sempre personali e lontani dalle opinioni correnti, intreccia il suo punto di vista a quello del signore in un gioco di prospettive che s’incrociano. Sicché la presenza di un io nel ruolo di testimone laterale più che di soggetto centrale, e che tuttavia interviene nel racconto, trasforma il giornale di viaggio in un romanzo di viaggio, unico nel suo genere, dove il segretario-narratore (il je al quale il lettore è invitato a identificarsi, sposandone il punto di vista) è un personaggio secondario che, l’occhio fisso al capo della comitiva, l’orecchio teso alle sue parole, assiste alla vicenda di un eroe (il, Montaigne): «eroe» in quanto protagonista, personaggio principale, appunto, ma anche nel senso più lato di essere d’eccezione, portatore di saggezza e fortezza d’animo, maestro di vita.

Questa è l’immagine di Montaigne che emerge dalle annotazioni implicitamente o esplicitamente ammirative dell’accolito, ben consapevole delle particolari prerogative e virtù del signore, a cui lo unisce un rapporto di affettuosa sollecitudine. Solerte a rendergli comodo l’alloggio, preoccupato di ciò che può nuocergli, attento alle sue sofferenze ( Montaigne è malato del mal della pietra e nel corso del viaggio sosta a Plombières, Baden, Abano, Bagni di Lucca per provare le acque minerali ), il segretario contempla con commosso stupore la salute prodigiosa dello spirito che sostiene quel fisico provato dalla malattia, la felicità della mente che ha ragione delle miserie del corpo. Questo testo non è una pura relazione di viaggio, è anche la biografia d’un viaggiatore.

Al tempo stesso il biografo-scrivano fornisce osservazioni preziose e curiose – ora chiaramente attribuite a Montaigne, ora sue proprie: difficile individuare chi parla – su usi, comportamenti e costumi nei paesi attraversati: ossia per tutto il tragitto in terra di Francia fino a Plombières, poi in Svizzera con i soggiorni a Basilea e Baden, e via attraverso Sciaffusa, Costanza, Augusta, Monaco, Innsbruck, il Brennero e la discesa in Italia per Trento, Verona, Vicenza, Padova, Venezia («Egli diceva d’averla trovata diversa da come l’immaginava, e un po’ meno mirabile»), Ferrara, Bologna, Firenze («Non so perché questa città sia chiamata bella per eccellenza; lo è certamente, ma senza alcun vantaggio su Bologna, poco su Ferrara, e meno senza paragone di Venezia»), Siena, fino a Roma. Qui l’anonimo intendente-segretario-narratore è ancora presente per due mesi e un po’ più (dicembre 1580, gennaio e una parte del febbraio 1581). Suo è il racconto dell’udienza papale, un capolavoro di (involontario?) umorismo che evoca irresistibilmente Mack Sennett o Charlie Chaplin: due passi avanti, ginocchio a terra, benedizione, due passi avanti, ginocchio a terra, altra benedizione, sette o otto passi avanti, due ginocchi a terra ecc. Sua anche la descrizione della circoncisione, dell’esecuzione del bandito Catena, delle corse del carnevale. Sua la relazione delle impressioni di Montaigne davanti al misero spettacolo delle rovine, poche e povere rispetto allo splendore dell’Urbe antica di cui la Roma presente è solo il sepolcro: «Da chiari segni – come dal livello delle rovine – giudicava che la forma dei colli e dei pendii era completamente cambiata dall’antica; e teneva per certo che in vari luoghi noi camminavamo sul culmine di case intere. Dall’arco di Severo è facile capire che siamo a più di due picche sopra il livello antico; e invero si cammina quasi da per tutto sulla sommità dei vecchi muri, che la pioggia e i veicoli mettono a nudo». E suo il rendiconto dello sconcerto del gentiluomo alla messa del papa: «Gli parve singolare che (..) il papa, i cardinali e gli altri prelati restino seduti e, per quasi tutto il tempo del rito, a capo coperto conversando e intrattenendosi fra loro: queste cerimonie sembrano affar di pompa più che di devozione».
D’un tratto però il segretario sparisce senza che se ne sappia il motivo e Montaigne – che sembra sorpreso dall’accurata redazione del diario, come se l’avesse fino allora ignorata – prende la penna: «Avendo congedato quello dei miei uomini che s’occupava di questa bella incombenza, e vedendola ormai così avanzata, bisogna che la continui io stesso, qualunque incomodo sia per darmi». Siamo ancora a Roma: «È una città tutta corte e nobiltà: ognuno partecipa a suo modo dell’ozio ecclesiastico (…) Questa è una vera Corte Papale: la pompa di Roma e la sua principale grandezza stanno nello sfoggio della devozione. È bello vedere in questi giorni l’ardore religioso di una moltitudine immensa». Montaigne si mostra osservatore attento, descrivendo accuratamente le scene a cui assiste: prediche quaresimali (non meno interessanti della conversazione delle cortigiane, che però la vendono cara e «tanto ne sono avare quanto dell’intero negozio»), pratiche esorcistiche, cerimonie religiose, fra cui l’esposizione in San Giovanni in Laterano delle teste degli apostoli Pietro e Paolo «ancora con la carne, il colorito e la barba come se fossero vivi (…) Stanno in alto, in un luogo apposito; e li mostrano (…) lasciando ogni tanto cadere una tenda dietro la quale sono le teste, l’una accanto all’altra. Li lasciano vedere il tempo di recitare un’Ave Maria, e subito rialzano la tenda». L’assenza di commenti potrebbe apparire eloquente: Montaigne ha scelto una volta per tutte di rimettersi sempre all’autorità della Chiesa cattolica, apostolica e romana. Così fa nel colloquio con il Maestro del Sacro Palazzo, durante il quale gli vengono restituiti i suoi Saggi, confiscati all’arrivo e censurati ; e se non correggerà nessuno dei luoghi incriminati (l’uso del termine fortuna, l’elogio di poeti eretici, il panegirico di Giuliano l’Apostata, la condanna della tortura, l’affermazione della necessità di aver l’anima netta quando si prega, e dell’utilità per i giovani di fare ogni sorta d’esperienze), confermando anzi le proprie opinioni – ma come mere opinioni –, inserirà però nei Saggi una dichiarazione di sottomissione alla Chiesa. Da Roma compie poi l’inevitabile pellegrinaggio a Loreto, dove lascia un ex voto, raccoglie e riferisce i racconti dei miracoli. Quanto al «miracolo del trasporto di questa casetta – che ritengono esser proprio quella ove in Nazaret nacque Gesù Cristo – e la sua traslazione dapprima in Schiavonia e poi da queste parti…», nulla indica che non lo convinca, e tutto che voglia convincersene.

Fin qui Montaigne scrive ovviamente in francese. Quando però arriva a Bagni di Lucca, dove prenderà le acque, si diverte a passare all’italiano, lingua che conosce per le sue letture, come tutte le persone colte in quell’epoca (in questo momento l’italiano, insieme al latino, è lingua veicolare in Europa, come lo sarà più tardi il francese e oggi il basic english): «Assaggiamo di parlar un poco questa altra lingua massime essendo in queste contrade dove mi pare sentire il più perfetto favellare della Toscana, particolarmente tra li paesani che non l’hanno mescolato et alterato con li vicini». Il suo esercizio continua a Firenze (dove si ricrede: «Infine confessai, ch’è ragione, che Firenze si dica la bella»), Pisa, Lucca, Siena, di nuovo Roma, e sulla via del ritorno per Parma, Piacenza, Milano, a cui si accinge a tappe forzate, avendo intanto ricevuto la nomina a sindaco di Bordeaux che accetta su sollecitazione del re Enrico III; finché non passa la frontiera al Moncenisio e riprende a scrivere nella sua lingua per le ultime pagine.

Che cosa si può ricavare dal confronto fra le due parti del diario, quella redatta dall’ignoto segretario e quella scritta da Montaigne? Curiosamente, tono e carattere delle osservazioni non cambiano, mentre muta il rapporto percentuale: il segretario, pur tenendo nota delle coliche renali del signore, registrando quanto beveva e urinava nelle varie stazioni termali, coglieva però molti dettagli paesistici e urbani (le colline coperte di vigneti fra Thann e Mulhouse, le cascate schiumeggianti del Reno, i tetti in ceramica nella regione di Épinal, l’aspetto festoso delle città svizzere coi crocicchi ornati di fontane e le facciate dipinte), riportava usanze, descriveva macchinari e marchingegni (c’è nel Giornale una costante attenzione alle opere tecniche: gli orologi di Basilea e di Landsberg, i mulini ad acqua di Sciaffusa, i canali artificiali di Costanza e di Augusta, il girarrosto di Bressanone….). Preponderano invece, sotto la penna di Montaigne, gli appunti relativi alle acque e ai loro effetti: colore, sapore, temperatura, la renella e i calcoli che evacua, le flussioni di ventre, le emicranie, i regimi e i rimedi che sperimenta. Lo sguardo si sofferma, sì, sugli oliveti intorno a Terni, sui ridenti pianori del Folignate, e ancora sulle opere dell’uomo ( i giochi d’acqua di Tivoli – minuziosamente paragonati a quelli di Pratolino – o il dispositivo idraulico per prosciugare le paludi nello Stato di Lucca). Ma più che un taccuino di viaggio, il diario diventa una guida ai luoghi di cura, una cartella clinica, un promemoria terapeutico.

La prima permanenza a Roma frutta ancora le pagine giustamente celebri, già ricordate, sull’immenso teatro della città papale (par di capire tuttavia che laddove Montaigne parlava – e il segretario riferiva – si esprimeva liberamente, quando invece scrive di suo pugno, frena cautelosamente la penna, da suddito fedele della Chiesa). Successivamente il campo visivo si restringe, l’avido turista si chiude nel proprio cerchio fisiologico. Su questa rottura si definisce il vero paradosso del testo: lo scrittore meno scrittore dello scriba. Forse, se Montaigne avesse redatto di persona il diario fin dall’inizio ne sapremmo assai meno sul suo viaggio e sul suo modo di viaggiare. Quasi si stenta a riconoscere l’inquieto pellegrino che il segretario ritraeva invece nel suo irriducibile impegno a sfruttare al massimo le occasioni di conoscenza offerte dall’itinerario.

Quale itinerario, dunque? Lo scopo principale del viaggio non sarebbe la cultura ma la cura. Inframezzata, certo, dalle piacevoli occasioni che si presentano lungo il cammino: «il viaggiare mi sembra un esercizio giovevole. L’anima vi si esercita continuamente, notando cose sconosciute e nuove. E non conosco scuola migliore, come ho detto spesso, per formare alla vita, che presentarle continuamente la diversità di tante altre vite, opinioni e usanze, e farle assaggiare una così continua varietà di forme della nostra natura. Il corpo non vi resta in ozio né si affatica, e questo movimento moderato gli dà lena. Io sto a cavallo senza smontare, sebbene soffra di coliche, e senza disagio, otto o dieci ore». Così nei Saggi. E come nei Saggi, Montaigne non segue un programma, abbandonandosi all’estro del momento. Quando (dice il segretario) i compagni di viaggio si lagnavano con lui «perché guidava sovente la brigata per varie strade e paesi, spesso tornando assai vicino al punto di partenza (a volte lo faceva per aver avuto notizia d’una cosa degna d’esser veduta; altre volte perché mutava parere secondo le circostanze), rispondeva che per conto suo non andava se non là appunto dove si trovava; che per lui era impossibile sbagliare o allungare la strada, non avendo altro progetto se non di girare per luoghi sconosciuti».

La meta di Montaigne non è la Città Eterna – perno del viaggio in ogni epoca, come baricentro della classicità e città santa del cattolicesimo – e forse non è neppure l’Italia. Spazientito dai luoghi comuni, sogna terre lontane e ignote, al punto di contrapporre un lungo percorso attraverso la penisola balcanica a quella Roma che è meta tradizionale, imposta dalla moda e per questo unica agli occhi dei suoi accompagnatori, tediati e frettolosi durante le digressioni d’un percorso che vorrebbero ridotto a una serie di tappe d’avvicinamento. Scrive il segretario a Rovereto: «Fosse stato solo coi suoi, credo a dire il vero che sarebbe andato a Cracovia o in Grecia per via di terra piuttosto che piegare verso l’Italia. Ma quel piacere di visitare paesi sconosciuti, che trovava così dolce da dimenticarne la debolezza dell’età e della salute, non gli riusciva d’ispirarlo a nessuno della brigata: ognuno sospirava la propria meta (…) E quanto a Roma, meta dei suoi compagni, lui la desiderava meno d’ogni altro luogo in quanto era nota a tutti e non c’era lacchè che non fosse in grado di dare notizie su Firenze e Ferrara ».
Nei Saggi è detto chiaramente che ciò che spinge il cinquantenne gentiluomo ad abbandonare il suo castello è la sua «indole avida di cose nuove e sconosciute» che «giova certo ad alimentare in lui il desiderio di viaggiare: ma diverse altre circostanze vi contribuiscono». Innanzi tutto il viaggio permette di sottrarsi alle «spine domestiche», ossia alla gestione dei suoi beni («Mi distolgo volentieri dal governo della mia casa») come ai «doveri dell’affetto coniugale» («è un’intesa che spesso si raffredda per una presenza troppo continua, e che l’assiduità danneggia: ogni donna estranea ci sembra attraente. E ognuno prova per esperienza che la continuità nel vedersi non può eguagliare il piacere che si prova nel lasciarsi e ritrovarsi a intervalli»). Inoltre il viaggio permette di sfuggire allo spettacolo di corruzione e di rovina della Francia sconvolta dalle guerre civili («L’altra causa che m’induce a queste peregrinazioni, è che non so adattarmi ai costumi attuali del nostro Stato»). Insomma il viaggio è una fuga («so bene quello che fuggo, ma non quello che cerco»).

Ma ogni fuga è al tempo stesso espansione del desiderio, tanto più vasto quanto meno orientato. Nessun interesse specifico, nessun preciso scopo culturale lo accomuna ai viaggiatori del Grand Tour quale si istituzionalizzerà più tardi come momento formativo per i membri dell’aristocrazia e della piccola nobiltà europea. Non ci si affretti però ad accusare Montaigne (com’è stato fatto) d’insensibilità ai capolavori dell’arte. È vero che nella visita alla Sala Regia vaticana gli affreschi lo interessano unicamente per gli eventi memorabili raffigurati (la Battaglia di Lepanto, il ferimento e l’uccisione di Coligny). Tuttavia i capolavori della pittura, all’epoca, non erano quasi mai fruibili, nascosti nell’oscurità di chiese mal illuminate (e ornate del resto soprattutto di marmi e mosaici, più che dei dipinti che si accumuleranno nel barocco) o in palazzi privati: la Galleria degli Uffizi a Firenze non è ancora costruita; esistono a Roma i Musei Capitolini, ma occorre aspettare il Settecento avanzato perché le collezioni siano aperte al pubblico.

Lo anima innanzi tutto una sconfinata passione antropologica per la scoperta dell’altro. Ancora nei Saggi : «Non perché l’ha detto Socrate, ma perché in verità è la mia opinione, e forse non senza qualche eccesso, ritengo tutti gli uomini miei compatrioti, e abbraccio un polacco come un francese: posponendo questo legame nazionale a quello universale e comune. Non sono un patito della dolcezza del paese natale. Le conoscenze del tutto nuove e mie mi sembrano ben valere quelle altre comuni e fortuite conoscenze del vicinato». Del resto: «La natura ci ha messo al mondo liberi e senza legami; noi ci imprigioniamo in certi distretti. Come i re di Persia, che si obbligavano a non bere mai altra acqua che quella del fiume Coaspe, rinunciavano per stoltezza al loro diritto di usare tutte le altre acque e, per quanto li riguardava, tutto il resto del mondo era secco». La metafora cade a puntino, per un viaggio che è sete di nuove esperienze ma, alla fin fine, anche delle acque curative delle terme più rinomate.

Ma c’è ancora, nel Giornale di viaggio, un residuo che non si lascia ridurre facilmente alle ragioni già dette. Se nel Bel Paese, in particolare nel soggiorno a Bagni di Lucca, il diario s’italianizza, non solo nella lingua, e fra una colica e l’altra il gentiluomo si abbandona al piacere di vivere organizzando perfino una festa paesana, nella prima parte del percorso, in Svizzera e in Germania, terre protestanti o di confessione mista, Montaigne sembra condurre una vera e propria inchiesta sulla situazione religiosa, i rapporti tra le varie confessioni, visitando abbazie e conventi, assistendo ai riti, informandosi delle regole e cercando d’incontrare i ministri dell’una o dell’altra religione a cui pone sistematicamente le stesse domande. Questi problemi lo travagliano da tempo.

Tentato, in gioventù, dalla Riforma, se n’è allontanato accorgendosi che mettere in questione alcuni articoli della Chiesa equivaleva a provocare una frana e far crollare l’intero edificio. Tuttavia, sedotto dal rigore riformista, non cessa di sperare in quell’ accordo o compromesso fra cattolici e riformati che era fallito al Colloquio di Poissy (1561, dove era forse presente). Non dimentichiamo che fra i motivi che lo spingono a lasciare la Francia ci sono appunto le controversie e i conflitti sanguinosi generati dalla Riforma. E non sarà un caso che i temi che affronta conversando (naturalmente in latino) con i teologi e i ministri (predestinazione, ubiquismo, forma dell’eucarestia, culto delle immagini, matrimoni misti) siano, sì, questioni all’ordine del giorno, di cui è inevitabile parlare, ma anche appunto i problemi che fissano la frontiera fra i due partiti, che determinano le differenze nelle pratiche, e che, se risolti a Poissy, avrebbero potuto ridurre i dissensi e salvare il mondo occidentale dalla rovina. Non è forse senza importanza che a Épernay Montaigne s’intrattenga (incontro fortuito?) col celebre gesuita spagnolo Juan Maldonado, ostile alle inutili controversie teologiche, partigiano d’un ritorno alla lettera delle Scritture e favorevole forse al socinianesimo. Che a Kempten s’informi sulla nuova redazione della Confessione di Augusta (la Formula concordiae del 1577, da cui non può trar profitto poiché è in tedesco). Che eviti di recarsi a Ginevra, roccaforte d’ortodossia e di disciplina calvinista. Che si fermi invece nella tollerante Basilea, dove conferisce (appuntamenti probabilmente fissati in anticipo) con Gryneus, teologo zwingliano, François Hotman, calvinista convinto, Theodor Zwinger e Felix Platter, eredi intellettuali degli eretici italiani che qualche decennio prima avevano trovato asilo nella città: figli spirituali di Sébastien Castellion (Montaigne deplora nei Saggi la sua morte in miseria), il fautore della tolleranza religiosa a cui si rivolgevano anche Lelio Sozzini e Bernardino Ochino (il suo Catechismo e la sua Disputa intorno alla presenza del corpo di Gesù Cristo nella cena figuravano nella biblioteca di Montaigne).

Che voglia andare anche a Zurigo, altro luogo deputato della tolleranza (è costretto a rinunciarvi perché nella città c’è la peste): tutti coloro che resistevano alla riforma luterana, tutti coloro che resistevano alla riforma calvinista, e che tuttavia aspiravano a una riforma, guardavano a Zurigo, e da Zurigo venivano indicazioni per un accordo, a realizzare l’unità della religione riformata. Qui aveva preso piede quella coabitazione di dottrine, base del socinianesimo quale si affermerà poi in Polonia. E perché stupirsi, allora, se Montaigne vorrebbe recarsi a Cracovia? Città splendida e rinomata come una delle più belle capitali d’Europa, ma anche rifugio di tutti coloro che lottano per la libertà religiosa. Di qui a ipotizzare che Montaigne abbia potuto essere incaricato ufficialmente di una missione, per verificare le possibilità di conciliazione fra cattolici e riformati, il passo è lungo. Ma che abbia condotto questa inchiesta (magari per interesse personale), il Giornale lo attesta chiaramente. È anche nella prospettiva dell’ aspirazione fondamentale e comune alla riforma radicale della società cristiana e alla pace ideologica che occorre inquadrare l’itinerario di Montaigne, viaggio doppiamente terapeutico: per curare il mal della pietra e il male della Francia.