Ci sono tanti modi, stili, sguardi per narrare e mostrare l’elaborazione di un lutto, il trauma di una perdita, i sensi di colpa che non smettono di affiorare. Alex Garland, regista e sceneggiatore londinese, per il suo terzo lungometraggio Men (in sala dopo la presentazione a maggio alla Quinzaine des réalisateurs del festival di Cannes) ha scelto la strada dell’horror, quello della mutazione fisica, del mistero e dell’inquietudine – elementi già presenti nel suo film d’esordio Ex Machina (2014) e nel successivo Annientamento (2018).

IN «MEN», che a differenza del titolo ha per protagonista una donna, Harper, il pre-testo è la morte del marito James, forse suicidatosi, forse caduto accidentalmente dal balcone del piano superiore mentre cercava di reintrodursi nell’appartamento dopo essere stato cacciato dalla moglie quando durante un litigio le aveva sferrato un pugno al volto. Pre-testo che Men descrive per flash, memorie visive che tormentano Harper. Per cercare di superare quanto accaduto, nel tentativo di ritrovare un po’ di serenità e equilibrio, Harper lascia Londra per raggiungere il villaggio di Cotson, immerso nella campagna inglese, e risiedere in un’antica tenuta per un paio di settimane. Un posto verdeggiante, vedute mozzafiato dalle finestre del maniero, boschi nei quali incamminarsi. E perdersi. Harper è perseguitata da persone reali e da «proiezioni» che si autorigeneranoNon ci vuole molto perché Harper – dopo il piacere di scoprire nuovi e inattesi ambienti mentre sta esplorando i dintorni, in particolare un tunnel che l’attrae, giocando a creare echi con la propria voce, prima di scappare avendo visto dall’altro lato un uomo che la insegue – venga risucchiata in un vortice labirintico dal quale non sembra esserci via d’uscita. Minacciata tanto negli esterni quanto dentro l’enorme abitazione, le sue ampie stanze, alcune dipinte con un rosso acceso. L’antico si intreccia con il moderno. E il recente passato della donna la visita costantemente.

BISOGNERÀ sprofondare per poter riemergere. E fronteggiare una schiera di uomini (ecco il senso del titolo) che la accerchia, non le dà tregua, persone reali, che fanno parte di quella piccola comunità, e al tempo stesso «proiezioni» di comportamenti maschili, maschilisti, morbosi, entità che si autorigenerano da uno stesso corpo (in una delle scene più efficaci del film che rimanda alle migliori mutazioni corporee del body horror degli anni Ottanta abitato dagli effetti speciali concreti e non digitali), partoriscono se stesse e infine si liquefanno o, meglio, si «condensano» nel corpo di James che, da morto, cerca ancora risposte sulla sua relazione con Harper. Perché Men è anche una storia d’amore, di conflitti, di responsabilità, di accuse reciproche, che non vuole, o non può, ancora finire. Ma Harper ha fatto un passo in avanti nella sua «terapia» di guarigione psicologica.

PER RENDERE ancora più esplicito il lato metafisico del film, e la visione di una galassia maschile che, nelle diversità, si ri-conosce compatta nei suoi comportamenti verso le donne, Garland ha fatto interpretare tutti i ruoli maschili (tranne quello di James) allo stesso attore, Rory Kinnear. Che dà il suo volto, trasformato dai trucchi, al proprietario del maniero Geoffrey che accoglie Harper, all’uomo nudo (e mutante, raffigurazione del mito del Green Man) che la perseguita, al viscido e sessualmente represso vicario che le fa aumentare i suoi sensi di colpa, a un ragazzino ribelle (il corpo è di un altro attore) che la insulta, al compiaciuto poliziotto locale che indaga, al proprietario del pub e a due avventori del locale. Una performance notevole per il celebre attore inglese di cinema, televisione e teatro.
Nei panni di Harper c’è invece la trentatreenne attrice e cantante irlandese Jessie Buckley, che dà al suo personaggio intense sfumature rese con minimi e profondi cambiamenti espressivi (era già molto brava ne Il concorso di Philippa Lowthorpe, del 2020, con Keira Knightley, uscito in Italia solo su internet e che merita un recupero in dvd).