Nella storia del festival di Aix en Provence le rappresentazioni di Così fan tutte di Mozart dirette da Hans Rosbaud ne 1957 sono assurte allo status leggendario di mito fondativo; in un’edizione del festival tutta improntata sul tema del disinganno la scelta di Così fan tutte è parsa tuttavia quasi obbligata, al punto da bruciare, con elegante sprezzatura, la cifra tonda del sessantenario. La lettura di Christophe Honoré, sensibile registra cinematografico con all’attivo più di un’escursione in territorio melodrammatico (fra cui un toccante Dialogues des carmélites di Poulenc a Lione), si è presentata però fra le più cupe e irrisolte degli ultimi anni.

Nonostante qualche magia nell’ambientazione «coloniale» assai curata, la forzata trasposizione dell’opera negli Anni Trenta, nell’Eritrea fascista con tanto di gagliardetti, uniformi e immagini del duce, non si è trasformata in un lievito realmente vivificante. L’irridente gioco di «blackface» dei due giovani soldati italiani, che si tingono e travestono da miliziani neri Dubats per mettere alla prova di quelle che nella lettura del regista diventano le figlie di un colono locale, è solo uno degli elementi con cui Honoré ha punteggiato una vicenda pesantemente sbilanciata su un ossessivo reiterarsi di elementi violenti e disturbanti.

Non c’era aria o scena, persino le più comiche affidate a Despina ( una magnifica Sandrine Piau, fulminante nelle brillanti cadenze delle sue arie) che non fosse pervasa da cupe atmosfere di violenza incipiente da parte di gruppi di uomini della popolazione locale o – come contraltare – da brutali soprusi dei dominatori bianchi sul popolo colonizzato. Assai poco sopravviveva dell’estatico e smalizioso gioco erotico, deformato semmai in una esibita foga carnale, e ancora meno del misterioso, ironico sorriso, anche velato di amarezza, che sprigiona dalla fusione fra musica di Mozart e libretto di Da Ponte. Forse le più centrate erano due figure più mature, Despina ( il notaio-sacerdote copto è una divertente trovata, la crocerossina-dottore un po’ meno) e l’architetto della burla, il don Alfonso ruvido e disincantato di Rod Gilfry. Fresche, anche se piuttosto leggere, le voci di Lenneke Ruiten e Kate Lindsey (Fiordiligi e Dorabella), ma molto partecipi del faticoso gioco scenico così come Joel Prieto e Nahuel di Pierro (Ferrando e Guglielmo).

Se la regia, eccetto forse il colorato banchetto berbero della scena finale, finiva per annoiare con la sua sequela di durezze e brutalità, la direzione di Louis Langrée proponeva un’esecuzione di notevole fascino. L’attenzione al dettaglio era costantemente sposata a un sicuro disegno di insieme, con una sensibilissima attenzione ai recitativi accompagnati e alla messa in luce delle qualità vocali dei cantanti nelle arie, fornite di cadenze appropriate. Su tutto alitava – nonostante ciò che proponeva la scena – un respiro carico di languore, restituito grazie alla qualità della Freiburger Barockorchester, con tempi di insolitamente e felicemente ampi in un panorama contemporaneo in cui abbondano le letture frenetiche e mozzafiato. Applausi convinti, ma nessun trionfo per l’opera simbolo del Festival.