Frastuono è per molti quella musica pompata che suonano/ascoltano a palla «i giovani d’oggi» questo mistero antropologico che Davide Maldi cerca di dissipare nel suo film in concorso a Torino 32, per l’appunto intitolato Frastuono. Ambientato in una Pistoia a mezzo tra la provincia urbanizzata e i boschi selvaggi segue, entomologicamente, Iuli, un ragazzo che vive in una comune autogestita, ecologista e fricchettona, che si sistema il casolare rifacendo il tetto coi pannelli solari, prepara le composte di kiwi, taglia la legna per il riscaldamento domestico. Quando può Iuli corre nei boschi con le grandi cuffie da insetto mostruoso e la sua musica (ha un computer per comporre psy-trance) sparata, e fa il bagno nudo nella cascata. Frequenta un liceo artistico, ma interazione con gli altri ragazzi zero. Angelica invece è una ragazza di città, che ha mobili antichi e pareti affrescate nella sua stanza e anche lei si compiace del piacere solitario non solo della sua musica ma anche dei video che monta e confeziona, a partire dalle sue immagini dell’infanzia.

In queste vite parallele, raccontate per frammenti e senza dialoghi significativi, si scoprono spazi architettonici e scorci paesaggistici inediti, che rivelano nei due ragazzi per associazione un inconfessato o inconscio anelito alla bellezza e all’arte: Iuli viene mostrato in una chiesa antica abbandonata con un magnifico organo in disuso, Angelica insieme alla sua amica mentre attraversano la cattedrale fino al campanile per spiare dall’alto un affollato concerto rock. Angelica canta e suona in una band punk, e si colora i capelli arricciati nelle tinte di prammatica, fino a quando in un viaggio a Berlino, scopre la vera sé stessa e ritorna alla tinta naturale, alla sua faccia da ragazzina con dei bei capelli neri mossi e comincia a cantare le sue canzoni senza bisogno di travestirsi o di dipingersi la bocca come un clown. Iuli invece, restaurata una barca a vela, se ne va a nuotare e navigare per mari non identificati. L’esperienza della musica e di un viaggio che separatamente i due fanno a Berlino, con gli amici della band Angelica, e da solo Iuli, producono se non un progetto di vita ma una nuova consapevolezza di cosa vogliono fare, piuttosto di quello che possono fare, che sappiamo essere ben poco. Isolati nei loro parchi giochi elettronici o in quelli di cui si impadroniscono con gli skateboard o la musica, o nei rave nel fango di uno slargo nei boschi, vivono una Woodstock triste e solipsistica dove la comunità è scomparsa per lasciare il posto a un ballare meccanico e solitario, immersi nella musica-frastuono.

Il film è stato girato nell’arco di due anni e più, seguendo a dovuta distanza i ragazzi nella loro evoluzione, e raccogliendo un ricco materiale che la montatrice Ilaria Fraioli ha saputo accostare evocando un racconto che il film si nega.A Second Chance di Susanne Bie  è stato presentato nello stesso giorno in cui in un’altra sala si poteva vedere The Disappearance di Eleonor Rigby, versione originale in due parti, Him e Her, di Ned Benson, entrambi incentrati sul dolorosissimo evento delle morti bianche dei bimbi in culla, che sono la fonte di stress devastanti in una coppia, come si vede nel film di Benson, e che producono sulle donne, che si sentono madri fallite, un irresistibile impulso all’autodistruzione.

Il film di Susanne Bier scarta il percorso del melò domestico e sceglie quello più difficile del dramma sociale poliziesco, assumendo un punto di vista prettamente maschile. In questo caso infatti il padre del bimbo che muore in culla è un poliziotto, sposato con una fanciulla della buona borghesia che va fuori di testa quando il bimbo muore. Il poliziotto però sa che c’è un neonato nato da una coppia di junkies che lo lasciano immerso nei suoi escrementi, per cui gli sembra di fare un’opera di bene a sostituire il cadaverino del suo e portare alla moglie questo bebè. Ma non ha fatto i conti con la biologia emotiva delle madri…