Non è una virtù da poter esibire, la coerenza, ma ancor meno è associabile a quelle cui si riferiva, ovviamente per antifrasi, il titolo di uno dei suoi libri più belli, intessuto di racconti messi insieme a bilancio della intera giovinezza, Le piccole virtù (’62): proprio la coerenza, l’adesione tra i comportamenti e le parole espresse, nel paese che nel lungo periodo ha fatto dell’opportunismo e del trasformismo il crisma identitario delle sue classi dirigenti, è invece la caratteristica elettiva di Natalia Ginzburg (1916-1991), iscritta nel senso comune dei lettori a partire da Lessico famigliare (’63), il libro che richiamandone l’ambiente nativo svelò l’orizzonte d’attesa di una donna tanto legata al proprio alveo di ebrei antifascisti quanto proclive al cosmopolitismo e a un umanesimo universalista.

SE È MAI ESISTITO chi somigliasse alle proprie pagine con quella che i francesi dicono présence, costei è Natalia Ginzburg nella sua austera compostezza, nella dignità di chi prende la parola solo ponderatamente e si direbbe in stato di costrizione, di assoluta necessità. Tanto che il lettore, senza mai essere intrigato o lusingato, se ne sente viceversa ed in ogni momento rispettato. E, in proposito, venne a Cesare Garboli l’immagine della pietas, il gesto di chi scrivendo «raccoglie qualcosa da tutto quello che vede e da tutto quello che gli capita. Ma non è una legge, qualche volta non raccoglie nulla o quasi nulla». E appunto Natalia si serve solo di quanto sente necessario alla declinazione, volta a volta diversa, di un sentimento per lei primordiale e cioè l’uguaglianza, in beni e in diritti, dovuta agli esseri umani.

Non si tratta di un sentimento religioso o di una ideologia ma piuttosto di una evidenza antropologica da tutelare o, se il caso, da ripristinare, e qui si veda Serena Cruz o la vera giustizia (’90) che fu il suo sottaciuto testamento. Ora lo conferma un piccolo prezioso libro, Una cosa finalmente lieta. Scritti civili e discorsi politici (Edizioni di Storia e Letteratura, «Civitas», pp. 139, euro 12.00) nella precisa curatela della scrittrice Michela Monferrini.

Lo compongono cinque discorsi e altrettanti articoli comparsi su l’Unità unitamente ad alcune interviste sui temi civili e un’appendice documentaria che include il breve necrologio pronunciato da Nilde Iotti, allora Presidente della Camera dei deputati dove Natalia Ginzburg espletò il proprio mandato di parlamentare eletta nelle file della Sinistra Indipendente per due legislature fra il 1983 e l’8 ottobre del ’91, giorno della sua morte.

Da parlamentare, per non usare come un potenziale alibi il suo nome di scrittrice, scelse, così unendo il cognome da ragazza a quello del secondo marito, di firmarsi Natalia Levi Baldini. E fu una parlamentare assidua, mai assente dall’aula, laconica e puntuale nei suoi rarissimi interventi, paradossalmente sostenuta da infiniti scrupoli e dal dubbio di non avere talento per la diretta militanza, pure se aveva sempre manifestato la sua opinione e parlato chiarissimo anche nel passato recente, firmando nel 1971 un pubblico documento contro il commissario Luigi Calabresi, circa la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, e ancora nel 1982 con Primo Levi aveva condannato l’invasione del Libano voluta dal governo di Israele con l’ipocrita denominazione di «Pace in Galilea».

NON È DUNQUE UN CASO che il disarmo, e anzi il disarmo unilaterale, sia un tema ricorrente nei suoi interventi a partire dal 15 novembre 1983, quando afferma con la schiettezza che le è propria: «L’idea che la pace debba essere armata e difesa con le armi è una idea totalmente falsa: la pace vera non può che essere disarmata, la pace vera ha in odio le armi e un simile odio essa lo pone al di sopra di tutto. Quello per cui l’Italia dovrebbe battersi è il disarmo unilaterale». (Pochi mesi dopo sarà un altro scrittore, Paolo Volponi – e qui si vedano i suoi Discorsi parlamentari, Manni 2013 – a gridare dal suo scranno di senatore che sarebbero bastati i soldi di un carro armato per salvare le mura antiche di Urbino).

Per parte sua, Natalia lega il tema della pace direttamente alla memoria del 25 aprile e rammenta, per l’anniversario del 1986, la bellissima canzone scritta dal suo amico Italo Calvino con il musicista Sergio Liberovici, Oltre il ponte (dove una strofa attacca con Tutto il male avevamo di fronte/tutto il bene avevamo nel cuore), per concludere rivolgendosi ai più giovani: «Oggi, ai ragazzi che sfilano dicendo no alla guerra e a noi stessi, dovremmo chiarire che no alla guerra significa dire no ad ogni forma di prepotenza e violenza, no al sangue, no alla lotta armata».

E IL DINIEGO TOTALE nei confronti della guerra spiega la sua costante attenzione agli elementi basilari della civiltà, quali il prezzo del pane, il costo della casa e spiega, di riflesso, anche il senso di prossimità alla vicenda umana e politica di Enrico Berlinguer cui dedica, sulle colonne del quotidiano comunista, un toccante e nella sua asciuttezza vibrante necrologio costellato di quattro aggettivi (qualcuno rilevò che la cadenza degli aggettivi in Ginzburg è quaternaria nei frangenti apicali) ovvero le qualità che ne facevano un uomo timido, mite, schivo e solo.

Ancora una volta la mano di Natalia mentre vibra è ferma, la sua voce è netta, il suo stile tutto risolto nella brevitas che non è soltanto brevità ma pregnante esattezza, insomma è il risultato provvido e imprevisto di chi prendendo la parola teme comunque l’inadeguatezza, l’errore. (Il suo massimo studioso ed editore, Domenico Scarpa, introducendo Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990 – Einaudi 2001 – scrive che in lei la consapevolezza di non poter sapere è solo pari alla ostinazione nel domandare o «alla cocciutaggine con la quale specifica la misura dei propri limiti nell’atto stesso di metterli alla prova, forzarli, superarli»). Perciò la scrittrice sembra restringere il campo di osservazione e la gamma degli interessi nel momento stesso in cui calcola, però, la fallacia di ogni stereotipo e partito preso, la vanità di qualunque obbedienza non sia prima passata al vaglio della ragione.

QUANTO A QUESTO, basterebbe l’esempio del discorso per lei più difficile, pronunciato alla Camera 15 marzo del 1989 nel corso di un dibattito sulla violenza sessuale e sul Codice Rocco per il quale lo stupro non rientrava fra i reati contro la persona ma, semplicemente, contro la morale. Si chiede Natalia all’inizio: «Come applicare e come formulare una legge su una zona della nostra esistenza che richiederebbe e riserbo e silenzio?»; ed immediatamente si risponde: «Come può rimanere impunito un delitto contro la persona? Come può sottrarsi alle forze dell’ordine chi ha commesso uno stupro semplicemente perché la vittima ha deciso di non denunciarlo?».

La postura è di chi sta proponendo un ragionamento, non un partito preso, ed è pari all’attitudine di una scrittura, la sua, che nell’atto di prodursi si esonera di qualunque sapere che non le venga dal metabolismo dello scrivere medesimo. Michela Monferrini, nella prefazione, riferisce che all’ingresso del Parlamento si presentò il primo giorno con la borsa piena di libri e di giornali, la camicia a quadretti e la gonna blu plissettata, come le studentesse di una volta: perché di tutto l’esistente, Natalia Ginzburg, non aveva mai smesso di sentirsi una allieva.