Forse Silvio Berlusconi ha in mente una strategia sottile e ardita. Però a sentirlo sembra piuttosto procedere alla cieca, senza più bussole di sorta. Tirare le somme della lunga giornata di ieri, iniziata con un plateale sgarbo al dissidente Fitto, proseguita con la prima metà dell’Ufficio di presidenza azzurro, conclusa da una raffica di esternazioni a tutto campo nel corso della presentazione del libro di Vespa, è semplice: il capo di Fi concede tutto a Renzi e nulla ai dissidenti interni.

Il patto del Nazareno è rotto? «Assolutamente no». E quel problemino sul premio di lista o di coalizione? «Si potrebbe fare che ognuno sceglie se preferisce il premio di lista o di coalizione». Nemmeno Vespa riesce a fargliela passare: mi perdoni presidente ma non è credibile. Nessun problema, era solo una boutade. Il contraente del Nazareno ha già ceduto sul premio di lista: «Va bene anche per noi. Così vinciamo perché dovranno entrare tutti, sia Lega che Ncd». Anche Alfano il traditore? «In nome della salvezza del Paese sono pronto a gettarmi i tradimenti alle spalle». Sì va bene, però Salvini con Alfano non si alleerà mai. «Cose che si dicono, poi le persone intelligenti cambiano idea». E al medesimo Salvini, che ruolo intende sua maestà concedere? «E’ un goleador, ma gli serve la squadra. Quella ce la metto io. Potrebbe anche fare il capitano, e io faccio il regista».

A prenderlo alla lettera, si dovrebbe parlare di vaneggiamenti. Ma il significato è invece chiaro. Berlusconi è pronto a tutto pur di difendere il patto che gli sta smantellando il partito alle spalle. Il perché lo ha spiegato poco prima, nell’Ufficio di presidenza: «Con quel patto posso mettere bocca nell’elezione del nuovo presidente e in più mi aiuta a recuperare l’agibilità politica». Il tesoriere Bianconi, quello che due giorni fa aveva invitato il capo a sloggiare da casa propria, azzarda un’altra interpretazione: «S’è preso una cotta». Calcolo o passione, il risultato non cambia: il Nazareno non si tocca.

Difendere il fidanzamento col giovanotto fiorentino comporta automaticamente arrivare ai ferri cortissimi con quello pugliese, Raffaele Fitto. A lui e ai suoi ribelli, infatti, il sovrano non concede nulla. In mattinata Fitto chiede di rinviare la riunione, non potendo partecipare causa udienza papale. «Si fa lo stesso», risponde greve l’infuriato di Arcore. Poi allungherà un ramoscello d’ulivo aggiornando a oggi l’ufficio di presidenza (che probabilmente si terrà invece domani). Ma per il resto non risparmia mazzate. La drammatica sconfitta denunciata da don Raffaele non esiste: «Le elezioni non le abbiamo perse noi ma il Pd». Certo qualcuno ha fatto danno: i dissidenti che proprio quando era necessario apparire uniti hanno straparlato in pubblico: «I panni, che non sono sporchi, si lavano in famiglia, non sui media».

Ma non sono le bacchettate che sferzano. E’ che nel merito il capo non arretra di un millimetro. Non sulle primarie: «Mai esistita una minoranza in Forza Italia. C’è da quando si parla di primarie. Non sono un bene». Non sull’azzeramento del gruppo dirigente, al quale non fa minimanente cenno. Meno che mai sulla denuncia del patto odiato dai ribelli.
In apparenza è uno spettacolo già visto. Il capo tira dritto, chi dissente sotto voce è tollerato, chi disobbedisce è un traditore. Ma questa è storia di ieri, quando Berlusconi era il re. Oggi le cose stanno diversamente. Oggi su 96 parlamentari ne controlla davvero meno di 50, e la decisione di non mollare su niente pare fatta apposta per fomentare la rivolta. Forse l’ex capo indiscusso non se ne rende conto e pensa ancora che basti una sua parola per sedare ogni malumore. Più probabilmente, gioca a prendere tempo garantendo a Renzi la fedeltà a un patto che lui per primo sa di non poter onorare, preoccupato solo di evitare le elezioni anticipate e di avere un ruolo centrale nella nomina del prossimo capo dello Stato. E’ possibile che speri di strappare a Renzi la «clausola di salvaguardia» suggerita da Calderoli: l’Italicum in vigore solo dopo l’abolizione del Senato.

In ogni caso, la situazione che si è creata dopo il voto di domenica rasenta il paradosso. Il Nazareno è vivo, perché tale lo proclamano i suoi contraenti. Il Nazareno è morto, perché nessuno dei due controlla davvero le proprie truppe in Parlamento. Lo si è visto ieri. Lo si vedrà molto di più quando si tratterà di indicare il successore di Napolitano. In situazioni del genere, di solito, si arriva alle elezioni anticipate. Ma per votare ci vuole una legge elettorale: non c’è e non si sa se e quando ci sarà. Ci vuole anche un presidente della Repubblica che sciolga le camere. Presto non ci sarà più nemmeno quello. Una favola l’Italia del Nazareno: altro che Crozza nel paese delle meraviglie!