Sarebbero almeno 5.086 i morti dall’inizio del conflitto nel Donbass, secondo l’ultimo rapporto Onu. Poco meno di 50 mila tra morti e feriti, secondo stime ufficiose russe e ucraine. Pur stando alle cifre Onu, quello nel sudest ucraino è un conflitto tra i più sanguinosi della storia europea del dopoguerra.

Un conflitto improvvisamente riesploso negli ultimi quindici giorni in forme sempre più terroristiche nei confronti della popolazione civile. Tanto che si è assaliti dal sospetto che all’incontro a Parigi, lo scorso 11 gennaio, a latere della marcia contro il terrorismo, qualcuno dei leader mondiali abbia concesso luce verde a Poroshenko per la massiccia offensiva iniziata subito dopo.

Ma, sia che le fonti Onu parlino di circa 200 morti negli ultimi nove giorni; sia che la Novorossija scriva di 750 morti solo tra le truppe ucraine (Kiev avrebbe allestito tre crematori nelle retrovie del fronte) che stanno tentando di riconquistare l’aeroporto di Donetsk; sia che il rappresentante russo all’Osce, Aleksej Kelin, parli di oltre cento morti in solo giorno a Gòrlovka (qui ieri i governativi hanno usato bombe a grappolo); in ogni caso, appare fuori dubbio che gli ultimi scenari del conflitto scatenato da Kiev rivestano sempre più un carattere terroristico contro la popolazione civile. Osservatori politici russi giovedì, nel corso del talk show serale di Vladimir Solovëv, attribuivano il carattere terroristico delle azioni di Kiev a due motivi. Il primo è quello di demoralizzare la popolazione, affinché si sollevi contro le milizie; il secondo è quello di provocare, alla lunga, un intervento diretto di Mosca.

Da Mosca, Vladimir Putin ha dichiarato che la responsabilità per l’inasprimento della situazione nel Donbass ricade su chi impiega le artiglierie e l’aviazione contro i quartieri popolati, . Ordini come quelli che hanno portato alla strage di giovedì scorso, allorché, secondo la Novorossija – ma anche secondo le prime indagini Osce – obici ucraini hanno colpito un tram a Donetsk, uccidendo 15 persone. E altre tre persone sono morte ieri, colpite dalle artiglierie governative, insieme a 24 combattenti delle milizie. Sabotatori ucraini hanno ucciso il Sindaco della città di Pervomajsk, nella Regione di Lugansk, insieme a tre suoi collaboratori.

Nonostante ciò, Kiev continua ad accusare le milizie di violazione del cessate il fuoco e Aleksej Kelin ha definito «vergognose e ciniche» le accuse lanciate da Kiev, secondo cui le milizie stesse sparerebbero sui propri cittadini. Ecco dunque che ieri il Presidente della Repubblica di Donetsk, Aleksandr Zakharcenko, ha detto che la Repubblica non sottoscriverà più.

Zakharcenko, parlando dell’intenzione di impartire l’ordine di non fare più prigionieri, ha poi dichiarato che «attaccheremo lungo tre direttrici contemporaneamente, per allontanare i reparti nemici dalle nostre città e impedir loro di bombardarle. Combatteremo finché non raggiungeremo il confine della Repubblica di Donetsk». Zakharcenko ha anche parlato dell’introduzione della pena di morte. In realtà, la Repubblica di Donetsk già nell’agosto scorso aveva adottato le norme sui tribunali di guerra e sul codice penale (lo stesso in vigore in Russia; prevede la fucilazione per delitti particolarmente gravi, ma la esclude per minori, donne e ultrasessantenni. In Russia c’è però la moratoria dal 1997). La misura dovrebbe durare per il solo periodo di guerra.

In questo quadro, rispondendo all’appello rivolto a Europa e Usa dalla ex paladina dell’Occidente, Julija Timoshenko, affinché forniscano all’Ucraina aiuti in «armi letali» per metterla in grado di «respingere l’aggressore e difendere il paese dall’ondata di terrorismo», l’ex Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero prestare «maggiori aiuti finanziari e militari al governo ucraino», che combatte «per difendere le proprie frontiere». Da chi?