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Franco La Cecla ha dato alle stampe nel 2006 il volume Surrogati di presenza. Media e vita quotidiana. I contenuti del volume sarebbero stati importanti per fare avanzare gli studi sui media in Italia, ma pochi se ne sono accorti, forse perché provenienti da un antropologo, che normalmente è considerato uno studioso lontano dal mondo dei media. Bene ha fatto dunque La Cecla a riproporre ora questo volume con Bébert Edizioni (pp. 175, euro 15) lasciandolo sostanzialmente invariato, ma aggiungendovi un utile capitolo su alcuni fenomeni presentatisi recentemente nel campo dei media, come ad esempio i social network o il selfie.

Il volume tratta di numerosi argomenti (televisione, telefoni portatili, pubblicità, ecc.), ma porta continuamente avanti una tesi centrale e cioè l’idea che tutti i media si caratterizzino per la capacità di produrre imitazioni della realtà o, meglio, quelli che La Cecla chiama «surrogati di presenza». Ciò deriva dalla loro possibilità di funzionare come strumenti attraverso i quali è possibile trasmettere la propria presenza, ma soprattutto è possibile sperimentare la presenza degli altri. Dunque, l’impressione che le persone hanno è che i media consentano loro di poter sperimentare la realtà, mentre, come sostiene La Cecla, possono soltanto fruire di surrogati della realtà. E i surrogati sono caratterizzati dalla capacità di sostituire la realtà, ma anche di allontanare inevitabilmente da essa.

La realtà, a ben vedere, è stata surrogata da tutte le pratiche espressive create dagli esseri umani nel corso della loro storia. Anche la letteratura e la pittura, ad esempio, hanno dato vita a dei surrogati di presenza. Sono stati però i media moderni a fare di questa possibilità di surrogare la realtà la loro principale capacità. Già i quotidiani popolari dell’Ottocento si presentavano come delle «finestre sul mondo», ma il cinema ha ulteriormente potenziato tale capacità, grazie alla notevole forza espressiva che contraddistingue le sue immagini. Oggi naturalmente molti altri strumenti si offrono a noi come mezzi capaci di surrogare la realtà. La televisione, ad esempio, grazie alla particolare natura delle immagini che trasmette, le quali sono in grado di suscitare l’impressione di vivere una realtà molto simile alla vita vera, ma spesso vissuta come migliore.

E si pensi agli smartphone, nei quali la presenza altrui non è soltanto evocata attraverso i flussi delle comunicazioni, ma è anche fisicamente presente, attraverso forme simboliche che rimandano a determinate relazioni sociali, come i nominativi di persone con i relativi numeri, gli sms che sono stati scambiati, le fotografie di persone e di eventi vissuti, ecc. Insomma, con questo strumento ci si porta in tasca il mondo degli affetti e delle relazioni che contano. Non è un caso che La Cecla racconti di aver visto qualche tempo fa ad Hong Kong una ragazza che baciava lo schermo del suo telefono poco dopo aver parlato con il suo ragazzo. Lo smartphone funziona cioè come una simulazione di intimità.

Naturalmente tutto ciò viene praticato anche attraverso i social network. La Cecla afferma che Facebook tende a realizzare una vera e propria azione di espropriazione di un territorio importante della vita sociale e cioè quello dove si trovano le relazioni di conoscenza e amicizia. Il che però non fa che assecondare una più generale tendenza perseguita dal capitalismo contemporaneo e tesa ad occupare e sfruttare economicamente l’intero spazio dei legami sociali. Ma tutti i social media, a suo avviso, vanno considerati come «simulazioni di un campo sociale, ma in realtà surrogati riduttivi di esso»

Ma va anche considerato che i social media operano principalmente attraverso le immagini degli individui e proprio da qui, secondo La Cecla, deriva una contraddizione insanabile. Quella dipendente dalla natura dell’immagine digitale, che gli esseri umani, nonostante il loro notevole impegno, non riescono a stabilizzare, perché in essa «ogni “presa” è negata dalla possibilità di una “migliore presa” tra un secondo». Ogni scatto, cioè, può essere migliorato dallo scatto che verrà dopo. Dunque, gli esseri umani sono impossibilitati a catturare la loro apparenza e a fissarla. E, pertanto, non riescono a riconoscersi in un’immagine. Né a ottenere un vero riconoscimento da parte degli altri. Quel riconoscimento di cui comunque non possono fare a meno se vogliono consolidare e rafforzare la propria identità.