«Certe volte la mia voce ha il suono della ghiaia, altre è come un caffé con la panna». Basta questa dichiarazione per evocare la favolosa, inarrivabile, profonda imprevidibile libertà dell’arte di Nina Simone, cui il Sundance film festival ha reso omaggio la sera dell’inaugurazione con What Happened, Miss Simone? (prodotto da Netflix, in programma anche alla Berlinale). Il titolo del nuovo documentario di Liz Garbus, una veterana del Sundance che ha già lavorato su profili di artisti altissimi e «tormentati» come Marilyn Monroe e Bobby Fisher, è la citazione di un testo di Maya Angelou («Cosa è successo Miss Simone? A quegli occhi velati per nascondere la solitudine, a quella voce che ha così poca tenerezza e che però trabocca d’impegno nelle battaglia della vita. Cosa ti è successo?»), scritto per Redbook nel 1970. Erano gli anni in cui Simone era virtualmente scomparsa dalla scena musicale e da quella politica, e stava per lasciare gli Stati Uniti (o, come disse lei, «i serpenti uniti d’America») e trasferirsi prima in Liberia, e poi in Europa.

 

 

 

 

Il tormento, anzi i cosiddetti demoni che stregavano la vita di Eunice Waymon (nata nel 1933 a Tyron, nella North Carolina rurale) sembrano inizialmente la maggior preoccupazione del film, citati in apertura dalla figlia (anche produttore) e, durante la presentazione in sala, da Garbus. Fortunatamente, grazie alla forza dei materiali di repertorio, della sua voce (quando canta e non) e della musica, Simone ci fa dimenticare quella gabbia narrativa e di stile, lineare e deterministica (che affligge parecchi documentari di qui), con la facilità con la quale, cantando una canzone cambiava improvvisamente ottava, spiazzando tutti.
«Ero l’unico che riusciva a starle dietro. Non si sapeva mai cosa avrebbe deciso di fare» dice Al Schakman, il suo direttore musicale, un carissimo amico e il chitarrista che l’ha accompagnata quasi tutta la vita. E quella spinta istintiva, irriducibile al rifiuto della sincronia con i tempi (musicale, storico, politico), quella ricerca mai soddisfatta di essere se stessa fa di Simone una figura irripetibile oggi. Studente di musica classica alla newyorkese Juillard (fu rifiutata dal prestigioso Curtis Institute di Philadelphia perché era afroamericana), Eunice Waymon cambiò nome perché i suoi genitori si sarebbero arrabbiati sapendo che suonava nei locali notturni di Atlantic City. Nina era il soprannome che le aveva dato un fidanzato di quel periodo. Il Simone arrivava da Simone Signoret (in Casco d’oro), la cui presenza enigmatica deve averla ispirata moltissimo. Il suo sogno era quello di diventare una grande pianista di musica classica («I liked this Bach!» – Questo Bach mi piaceva molto), e di essere la prima pianista nera a condurre un concerto di musica classica alla Carnegie Hall. Arrivò, applauditissima, alla mitica sala sulla 57a strada ma con un programma jazz, non Bach, e grazie a suo marito Andrew Stroud, un ex poliziotto del Bronx diventato manager che lanciò la carriera di Simone e, anche a detta di lei, ne rese possibile il successo. Il rapporto tra i due,creativo, intenso, occasionalmente violento e durato molti anni, è descritto nel film- dove insieme alle figlia di Simone appare anche Stroud.

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Dal debutto al Newport Jazz Festival (quando all’ultimo momento non voleva salire sul palco ma poi mentre suona la si vede sorridere di gioia), alla Playboy Mansion di Hugh Hefner dove canta una sua famosa interpretazione di Gershwin, I Loves You, Porgy, alla fama nei tour internazionali, all’incontro con la politica, dopo il bombardamento della chiesa di Birmingham in cui persero le vita quattro bambine afroamericane. Da quella tragedia, e dall’assassinio di Medgar Evers, nel 1963, nacque Mississipi Goddam (boicottata dalle radio di mezzo paese che restituivano i 45 giri spezzati in due), il suo primo, furioso, grido in appoggio alla battaglia per i diritti civili. Una battaglia che da allora diventò parte integrante della sua arte, con apparizioni alla Marcia di Selma e dopo l’uccisione di Martin Luther King, più in sintonia con la posizioni non pacifiste delle Black Panthers e del suo grande amico Stokely Carmichael. «Non sono non-violenta», Nina Simone ammonì King un giorno. Why (the king of love is dead) del 1968 è una canzone scritta dopo la sua morte. In quegli anni, la musica di Simone arrivava dalle strade in cui si combatteva il razzismo e dai testi di Langston Hughes e Lorraine Hansberry di cui era amica. Più avanti dirà che la politica danneggiò irreparabilmente la sua carriera. Ma nel film è quello il momento in cui sembra più realizzata.
Per l’apertura del Sundance 2015 la proiezione di What Happened, Miss Simone? è stata seguita da un’apparizione live di John Legend che ha suonato tre canzoni dal repertorio di Nina Simone.«Questo è un momento in cui la musica è necessaria in una nuova battaglia per i diritti civili, quindi l’esempio di Simone è importantissimo» ha detto Garbus presentando Legend. Selma, la marcia e il film (diretto da una laureata di Sundance, Ava Du Vernay e per la cui canzone Legend è stata nominato all’Oscar) si sono incontrati sul palcoscenico dell’Eccles. É stato un momento indovinato e molto in linea con tutto quello che Robert Redford ha sempre cercato di fare con questo festival.