Il termine più lusinghiero che il commentario mediatico internazionale ha riservato a Trump è di essere un populista. Eppure ha vinto largamente le elezioni e senza nemmeno l’appoggio degli hacker russi, come aveva ventilato la sua sfidante in campagna elettorale.

Piangono le star di Hollywood, ma non gli operai della rust belt; protestano i movimenti per i diritti civili nelle grandi città, ma non i farmer della sconfinata provincia americana e nemmeno buona parte della middle class bianca che l’avrebbe votato. C’è chi dice che tutto ciò rimanda a una questione di gender approach (compresa l’ostilità verso una presidente donna) e chi larvatamente insinua che sia dipeso dall’ignoranza del proletariato, fino a chi s’avventura nel postulare l’avvento di un’era post democratica.

Non c’è dubbio che l’analisi del voto è un esercizio complesso e qualsiasi accentuazione di questo o quel fattore interpretativo, potrebbe risultare un azzardo se non altro perché, alla fine, non riuscirebbe a spiegare come un personaggio come Trump abbia avuto successo laddove tutti gli altri hanno fallito.

Perché una cosa è certa, nessuno aveva capito in che mondo viveva ad eccezione di Trump. Né il partito democratico, né gli opinionisti e il sistema dei media, evidentemente rinchiusi, come scrisse Michael Moore vaticinando la vittoria di Trump, in una campana di vetro. Questa vittoria non ha solo messo in luce l’incapacità della classe politica e dell’intelligentia americana a comprendere la realtà del proprio paese, ma ci ha fornito l’evidenza che questa realtà è irta di contraddizioni niente affatto superate.

Tra Lady Gaga, Madonna e altre star schierate con Clinton e gli operai disoccupati che hanno votato Trump, chi ha ragione?

Probabilmente hanno ragione i giovani che avrebbero votato Sanders e che oggi protestano contro Trump, ma non è questo il punto perché non di stereotipi si tratta bensì di ciò che gli è sotteso. Il linguaggio, per esempio, come espressione di uno status.

Trump, a differenza di Berlusconi che è un insuperabile gaffeur, è autenticamente volgare e politicamente scorretto; ma in una società in cui il politically correct è una caratteristica delle élite dominanti, dove l’ingiustizia e la malafede si nascondono nelle pieghe del linguaggio, la sua scorrettezza viene percepita come parola di «verità» scagliata contro il sistema.

E che dire della contrapposizione bisogni/diritti implicita nel voto?

Come possono pensare i movimenti per i diritti civili (schierati con Clinton) di mantenere le loro conquiste se una parte della popolazione (gli operai, ma non solo) non riesce a soddisfare i suoi bisogni elementari, e viceversa come faranno gli operai che hanno votato Trump (ammesso che gli garantisca un posto di lavoro) a ritenersi soddisfatti se poi gli verrà meno, per esempio, il diritto alla salute per la cancellazione della riforma sanitaria e degli accordi sul clima?

Interrogativi forse retorici se li riferiamo esclusivamente al comportamento dei soggetti coinvolti, ma che risultano assai pertinenti se rapportati alle condizioni reali della società capitalista in cui «ogni cosa oggi sembra portare in sé la sua contraddizione».

Il voto americano, del resto, non ha fatto altro che confermare l’esistenza di queste contraddizioni, peraltro già manifeste in Francia o nella stessa Italia con lo spostamento del voto operaio (o del non voto) verso altri «populismi». Possiamo anche considerarli dei “semplici” voti di protesta, indulgere perfino a sociologismi consolatori: ciò che non possiamo fare, che la sinistra non dovrebbe fare, è persistere nell’ignoranza del contesto sociale in cui essa stessa opera; espungere dal suo vocabolario il conflitto latente che c’è in questo contesto negando, in definitiva, l’origine stessa della contraddizione capitalistica per cui, ad ogni grado del suo sviluppo, il capitale induce dei cambiamenti nel nostro modo di vivere che si rivelano in contrasto con i loro stessi presupposti.

Non tutto il Trump viene per nuocere, dunque: a patto che a sinistra si guardi la luna e non il dito.