Le degustazioni di vino si prestano decisamente al sarcasmo. Gesti affettati, per di più facilmente replicabili da qualsiasi profano, quali roteare il calice, oppure osservare gli archetti – applicati a un atto prosaico come bere un bicchiere di bianco o di rosso – assumono facilmente tratti grotteschi. Le barriere del ridicolo, poi, sembrano essere definitivamente abbattute quado si passa all’individuazione delle note. Passi per il fruttato, la violetta o la liquirizia, ma che dire quando si evocano il cuoio bagnato o gli idrocarburi che, a quanto pare, risulterebbero tipici del nobile Riesling a un certo livello di invecchiamento? La sociologia, per statuto, ha un rapporto privilegiato con lo svelamento, con la rivelazione del materiale che sta dietro lo spirituale, degli interessi che stanno dietro ai valori, dello spazio gerarchico delle posizioni che sta dietro le prese di parola, in sintesi che sta dietro le verità.

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Sguardi trasversali

Dall’analisi di Gianmarco Navarini nel suo I mondi del vino. Etnografia dentro e fuori il bicchiere (Il Mulino, pp. 262, euro 16) ci si potrebbe allora aspettare uno sguardo corrosivo e scettico su pratiche e discorsi. E qui però interviene una complicazione. L’autore, infatti, oltre che sociologo è anche viticultore, per di più di Pinot nero, e habitué, non solo per motivi di ricerca, di degustazioni e concorsi enologici. Di conseguenza, si potrebbe opinare che si tratta di un osservatore un po’ troppo partecipante o, per meglio dire, partecipe dei mondi analizzati. Ma proprio tale posizionamento anfibio, se da una parte può costituire un limite, dall’altra sembra configurarsi come un’occasione per uno sguardo trasversale, allo stesso tempo partecipe dell’illusio condivisa di un campo, per citare Bourdieu, ma intenzionato a comprenderne funzionamenti e problematiche senza per questo ridurlo a epifenomeno di pratiche di distinzione sociale o di valorizzazione economica.

Il viaggio di Navarini nei mondi del vino inizia con l’universo esclusivo delle aste, delle auction dove si fissano i prezzi dei top vine, le bottiglie appartenenti a un ristretto novero di etichette che raggiungono quotazioni stratosferiche. Si tratta di vini non da collezione, ossia da conservare in cantina in attesa dell’occasione giusta, ma da brokeraggio, che si acquistano a un determinato prezzo con l’idea di poterli piazzare in seguito realizzando una plusvalenza. Un bene rifugio anticongiunturale, analogo alle opere d’arte, con le cui dinamiche di mercato condivide alcuni tratti. A quanto pare Gianni Agnelli invitava a investire in vino, visto che se le cose andavano male ci si poteva bere le bottiglie.

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Denominazioni gustose

Le cose, però, non sono così semplici. Indicativa, in proposito, risulta l’afasia di un’autorevole degustatrice quando è chiamata a rendere conto dell’occasione in cui ha avuto modo di assaggiare il mitico Petrus (peraltro, insolitamente per i bordolesi, un Merlot in purezza). Oppure delle perplessità di un consulente per le case d’asta circa la bevibilità, durante un pasto, dei vini che costituiscono l’oggetto della sua attività professionale. Inoltre, se anche il Cabernet o il Nebbiolo reggono e, anzi, migliorano con l’invecchiamento in bottiglia, si ha sempre a che fare con temporalità tutt’altro che geologiche, circoscrivibili in decine di anni. Dopo di che il valore della bottiglia, anche se statutariamente legato alla qualità del suo contenuto, non può che basarsi sulla pura convenzione, sulla premessa o promessa di un suo continuo aumento di valore basato sul presupposto che non si faccia mai saltare il tappo.
La parte centrale di I mondi del vino è dedicata alle classificazioni, alle identità territoriali e ai criteri della qualità enologica. Un percorso storico sui principali passaggi tramite cui si è costruita, a partire dalla Francia, la classificazione e gerarchizzazione dei vini si intreccia con il tentativo di rendere conto del complesso funzionamento di un insieme di categorie, difficilmente riconducibile a un coerente sistema, in cui trovano posto «denominazioni» quali terroir, cru, Aoc, Doc, Docg, Igt ecc. In esse la dimensione statica del dato storico appare continuamente sfidata dalle dinamiche legate alle produzioni vinicole dei nuovi territori (Stati Uniti, per esempio), alle «alchimie» da cantina e alle nuove «vocazioni» di aree a già consolidata tradizione vinicola. Particolare attenzione è dedicata alla ricostruzione del circuito di valorizzazione, incentrato su riviste, auction, e concorsi attraverso cui si stabiliscono e ridefiniscono le gerarchie dell’eccellenza e che svolge il ruolo di gatekeeper per quei produttori che aspirano al salto di qualità. Non vengono poi trascurate le questioni di merito che agitano il dibattito fra i fautori del savoir-boire: monovitigno o blend, espressione del terroir o lavoro in cantina, botte piccola o botte grande, particolarità locale o gusto internazionale, tradizione (sempre «inventata») o innovazione, naturale e artificiale (con tutta l’equivocità che inevitabilmente si trova associata all’uso di tali termini). Ma la parte senza dubbio più riuscita del libro è la quarta, dedicata alla degustazione. Si può certo ridere di catrame (pardon, goudron) o zolfanelli e tuttavia come rendere conto delle percezioni olfattive nel momento in cui si intende ordinare e socializzare le proprie impressioni? Senza dubbio qui ci si scontra con i limiti del linguaggio nel rendere conto dell’esperienza sensibile. La problematica, tuttavia, non è solo wittgensteiniana ma anche fenomenologica e chiama in causa l’economia dei sensi nella costituzione del nostro orientamento al mondo.

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Obbedire ai sensi

In tal senso, si può osservare come un dato di lungo periodo, ossia il privilegiamento come dimensioni percettive della vista e dell’udito, abbia enormemente impoverito la gamma espressiva legata all’olfatto. Per catalogare e descrivere ciò che annusiamo disponiamo di un lessico semplificato e vago. Non resta dunque che rivolgersi all’analogia cercando in quanto percepiamo corrispondenze con qualcosa che abbiamo già sentito. E così chi intende partecipare alle degustazioni in modo non semplicemente mimetico si vede spinto a modificare il proprio atteggiamento nei confronti del mondo circostante, approfittando di ogni occasione per soffermarsi sugli odori e profumi di cose e ambienti al fine di ampliare lo spettro della propria memoria olfattiva. Se così è, la pratica della degustazione, con le sue bizzarrie gestuali e lessicali, lungi dall’esaurirsi in cantina o in enoteca sembra aprire a un contesto esperienziale più ampio e al recupero e alla riattivazione di un senso perduto o denigrato.