L’esplorazione del genere nelle mostre di arte moderna e contemporanea ha una lunga tradizione curatoriale, ma è stata più spesso associata con le rappresentazioni del femminile. Un numero minore di mostre, invece, si è occupato delle costruzioni del maschile proprio a partire dalla critica femminista al genere. Al contrario di altre mostre, però, Chercher le garçon, curata da Frank Lamy al Macval (Musée d’art contemporain du Val-de-Marne) di Parigi, include opere di soli artisti uomini. Quella che inizialmente sembrerebbe una mera provocazione è presentata nel catalogo della mostra come un tentativo di critica delle rappresentazioni delle maschilità nella cultura contemporanea, e non sarebbe scandaloso ammettere che termini come fallimento, dubbio, incertezza e fiasco, esplorati da alcuni lavori in mostra, possano essere utilizzati anche per definire questo progetto curatoriale, sebbene questo non voglia essere necessariamente un giudizio negativo su di esso. Appena entrati nel breve corridoio che collega la hall del museo alla prima sala della mostra, ci troviamo di fronte a una breve nota che si rivolge direttamente ai visitatori e alle visitatrici per spiegare che il nudo è un genere della storia dell’arte e che in questa mostra si troveranno molti nudi. Promossa da un’istituzione museale che ha anche una missione culturale radicata nel contesto locale della Val-de-Marne, questa mostra si rivolge ad un pubblico le cui differenze culturali, religiose, di classe e di genere non possono essere cancellate in nome una singola concezione elitaria del mondo dell’arte. Anziché basarsi sul consenso che ha fatto il successo di altre blockbuster sul genere, Lamy sembra pensare la democrazia del museo come uno spazio di dissenso.

Metafore erettili

Ma che cosa si intende per nudo qui? Appena entrati nella prima sala siamo accolti da una scultura senza titolo di David Ancelin che mette su un piedistallo un paio di jeans calati su delle scarpe. Forse una metafora dell’uomo messo a nudo, ma non c’è nessun corpo dentro quei pantaloni, non perché il maschio se ne sia andato, ma perché l’installazione ci invita, come dice il titolo della mostra, a chercher le garçon. C’è molto spazio per pelle, peli, fluidi e sudore senza necessariamente scadere nei cliches del testosterone.

Altre opere elaborano una sorta di giocosità nel disfare una concezione erettile della maschilità, come nei trofei accartocciati di Jean-Baptiste Ganne. Intitolato Détumescences (2012) questa istallazione è un contro-monumento ai gadget associati con la competizione sportiva. Questo lavoro ha forti risonanze formali con un’istallazione di Mary Kelly, Gloria Patri (1992), in cui trofei e placche superlucidate erano giustapposti a narrazioni della guerra in Iraq nei primi anni Novanta, per creare una sorta di continuità tra ideali maschili e prodezza fisica. Poste una accanto all’altra, queste due installazioni potrebbero innescare una discussione sulla militarizzazione dello sport nell’epoca moderna, e la sportivizzazione della guerra in epoca contemporanea. Al tempo stesso, però, si metterebbe in evidenza anche una sorta di ingenuità nel lavoro di Ganne rispetto a quello di Kelly. Mentre questo confronto formale — e ce ne sarebbero altri da fare — ci riporta alla scelta di una «una mostra collettiva di artisti uomini», si ricollega anche al problema della rappresentazione moderna del genere nella storia dell’arte. Questo mancato confronto con le artiste sarebbe teso, secondo Lamy, ad esporre il mito della simmetria dei generi.
Il concetto di modernità dell’artista nella storia dell’arte si è formato proprio attraverso una disqualificazione del genere. Così come altri concetti cardine del modernismo, quali il primitivismo o il naïf, anche il genere è stato trasformato dall’arte moderna in un «altro» di cui l’artista si deve appropriare, per evitare di diventare «altro» lui stesso. L’«altro», dunque, esisterebbe per la cultura visuale modernista solo come oggetto della rappresentazione e non come soggetto. Per queste ragioni si comprende come la categoria della «donna artista» sia stata spesso considerata una derivazione femminista che contamina con il genere l’autenticità dell’artista moderno. Nell’arte, così come pure nel linguaggio, il genere è marcato solo al femminile, mentre il maschile è assunto come universale. Queste problematiche dimostrano che il genere non ha a che fare con i corpi riproduttivi a livello biologico, ma riguarda il modo in cui i corpi sono riprodotti attraverso la storia.

È proprio all’interno di questo progetto critico femminista che Chercher le garçon ci propone di esplorare le costruzioni della maschilità nell’arte. Sebbene questa strategia rimanga complicata, mi piacerebbe accogliere l’invito del curatore di non prendere il sottotitolo della mostra come un’inversione del genere della «mostra di artiste»; invece, qui l’idea sarebbe quella, concentrandosi su una serie di lavori fatti solo da uomini, di rendere le maschilità leggibili e riconoscibili in quanto costrutti di genere anziché l’effetto di una naturalizzazione. Qui non si tratta di ritrovare una maschilità sovradeterminata e già scritta nelle pagine della storia dell’arte. La proposta è invece quella di cercare le maschilità oltre quella che Nicoletta Poidimani, citando Vandana Shiva, aveva definito come «monocoltura del genere». Attraverso una collettiva di artisti, quindi, non ci vengono proposte delle risposte su cosa sia o debba essere la maschilità per e degli uomini, ma ci si chiede di verificare i modi attraverso i quali concetti come efficienza, autorità, eroismo, conquista, forza, ecc., siano solitamente associati con la maschilità . Tra questi concetti, però, potremmo anche annoverare il privilegio maschile che, a livello istituzionale, la mostra forse non riesce totalmente a scardinare.

Identità insubordinate

È importante ricordare che le politiche di critica del genere non riguardano solo le donne, ma anche gli uomini i cui privilegi sono legati alla riproduzione di ruoli e categorie che li legano ad un patto patriarcale. Come suggerisce Giovanna Zapperi nel suo saggio per il catalogo della mostra, l’idea di non conformarsi alle norme che riproducono il genere potrebbe essere un punto di partenza per esplorare una forma di disobbedienza attraverso cui gli artisti mettono in discussione la propria maschilità . Diversi lavori in mostra attaccano gli aspetti virili dell’eredità dell’espressionismo astratto, criticano l’iconografia eroica della pittura del ventesimo secolo, decostruiscono gli aspetti fallici della scultura moderna o semplicemente si riappropriano dei gesti dei maestri del Novecento. Le contraddizioni e le ambiguità del genere non rappresentano solo un fallimento della riproduzione della norma, ma anche una possibilità di cambiare e resistere a quelle forme di maschilità che sono definite solo attraverso il loro essere subordinate al disprezzo e alla violenza omofobica. Così, alcuni degli artisti in mostra lavorano sul concetto di insubordinazione delle identità culturali attraverso la mascherata e il travestimento. Questi progetti immaginano scenari complessi che, attraverso la performatività del genere e della razza, ripropongono una questione che sta alla base di questa mostra: le maschilità moderne non sono, e non sono mai state prerogativa degli uomini. Come ebbe a scrivere Mario Mieli, il travestito grida vendetta al cospetto del cazzo, ed è forse per queste ragioni che il fallimento della mostra sta nella scelta non tanto di escludere le artiste ma di insistere sul fatto che tutti questi artisti siano «uomini».