La fondazione no-profit Openpolis usa tutti i dati in circolazione sulla pubblica amministrazione per monitorare l’avanzamento del Pnrr e permettere a tutti di verificare. È il punto di riferimento per accertare se, come ha ammesso il ministro Fitto, il ritardo sulla tabella di marcia del Pnrr sia già irrecuperabile. «In realtà, nessuno lo sa esattamente», spiega Vincenzo Smaldore, responsabile dei contenuti della fondazione.

«Sulla trasparenza – prosegue – il governo sta mancando in modo clamoroso. Non ha mai presentato la relazione sull’attuazione del Pnrr, che doveva arrivare insieme alla legge di bilancio. Inoltre, non funziona ancora la banca dati ReGis per monitorare lo stato di avanzamento del Piano progetto per progetto. Doveva essere pienamente operativa entro il 31 dicembre 2021. In una relazione di pochi giorni fa, anche la Corte dei Conti ha spiegato di aver dovuto chiedere i dati ai singoli ministeri perché la banca dati non c’è».

Secondo il vostro monitoraggio, sono tante le scadenze mancate?
Alla fine del 2022, il governo Meloni aveva riferito a Bruxelles di averle rispettate tutte, mentre a noi risultavano almeno 12 obiettivi non raggiunti. Ora la Commissione europea ha verificato il resoconto del governo e ha sollevato profonde criticità, chiesto interventi urgenti entro un mese. Il trimestre che scade domani prevede altre 10 scadenze del cui completamento non c’è traccia. Al momento di lasciare Palazzo Chigi, Draghi spiegò nella Nadef che nel 2022 avremmo dovuto spendere 30 miliardi e ne avevamo spesi la metà. Nel 2023 dovremmo spenderne 45 ed è inverosimile che il Paese in un anno triplichi la sua capacità di spesa.

Su cosa siamo in ritardo?
Il ritardo è trasversale. La relazione della Corte dei Conti ha evidenziato varie criticità: tempi troppo ravvicinati, linee di azione sovrapposte, personale inadeguato. Mancano le clausole di salvaguardia per il sud: se non arriveranno progetti, l’impegno a destinare il 40% degli investimenti al mezzogiorno non sarà rispettato. L’obiettivo ambizioso della riduzione delle disuguaglianze e della creazione di opportunità per donne e giovani si scontra con un sistema-paese impreparato. Manca una visione d’insieme. Il governo Meloni non ha ancora fatto sapere la sua idea sulle 4 o 5 riforme strutturali che possono davvero cambiare il volto del paese e attivare importanti investimenti pubblici.

Il ritardo è colpa del governo attuale o di quello passato?
Fino al 2022 le scadenze riguardavano soprattutto riforme. Il governo Draghi in vari casi ha sfruttato la complessità del nostro iter legislativo, presentando come «compiute» riforme che in realtà richiedevano importanti decreti attuativi. Ora le scadenze riguardano gli investimenti e qui è più facile verificare: i soldi sono stati spesi o no? Più in generale, il governo Draghi aveva caratterizzato il suo mandato con il Piano, su cui ognuno ha potuto esprimere un giudizio positivo o negativo. Con il governo Meloni questo è mancato.

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Il governo rivendica la sua natura finalmente «politica» e non tecnica, ma non ha nemmeno riferito le sue intenzioni al Parlamento. Ha pensato soprattutto ad alimentare uno scontro esterno con l’Ue e uno interno tra politica e amministrazione, dando l’impressione di voler mettere in riga Bruxelles e i burocrati. E ora vuole riformare la governance del Piano, creando ulteriori rallentamenti.

Meloni ha sempre sostenuto di voler modificare il Pnrr perché rispetto al 2021 il contesto è cambiato.
Al compimento dei cento giorni di governo ha detto di aver ottenuto un accordo con l’Ue per la revisione del Piano. Invece, a oggi a Bruxelles non è stata nemmeno presentata una richiesta. Se volesse, i margini ci sono. Il contratto con l’Ue lascia ai governi la scelta della strategia per raggiungere gli obiettivi concordati. Ad esempio, si può proporre di inserire nel Pnrr il ponte di Messina che sta a cuore al ministro Salvini.

Ma la Commissione chiederebbe un piano di fattibilità sul piano tecnico, economico e ambientale, che non c’è. Per far fronte alla guerra in Ucraina e alla crisi economica l’Ue ha messo a disposizione altri strumenti che si possono integrare con il Pnrr, come il fondo REPowerEu. Eppure, anche su questo il governo non ha fatto richieste. Il problema non è la mancanza di risorse. Il precedente dei fondi europei per la coesione è eloquente sull’incapacità di spenderli: dopo due settennati, il 40% dei sussidi a nostra disposizione sono inutilizzati.