Il fumo non sbuffa più dai pennoni industriali di quello che, ai tempi della cortina di ferro, veniva chiamato «il cuore d’acciaio della Repubblica». La terza città per grandezza della Repubblica Ceca (dopo Praga e Brno) ha praticamente eliminato lo stantuffo delle industrie metallurgiche, siderurgiche, meccaniche, chimiche e petrolchimiche. Il declino dell’energia a carbone e il dirompente rischio ecologico di altre strutture le stava rendendo anacronistiche. Per questo molte delle industrie pesanti oggigiorno sono state chiuse o convertite in musei, mete turistiche, spazi per la cultura. Tutte strutture che conservano però le strutture imponenti di quei tempi. Inquietanti cattedrali industriali che oggi servono ad altro.
Gli organizzatori del Festival Colours of Ostrava hanno deciso, ad esempio, di trasformare il polo dismesso di Dolní Oblast Vítkovice in una bellissima location per una delle più celebri rassegne est europee. Quindici palchi, centinaia di stand, duecentocinquantamila presenze in quattro giorni,il tutto incorniciato da un paesaggio a metà tra la fantascienza artigianale di Jules Verne e gli ingranaggi in 3D dell’Hugo Cabret di Scorsese. Sarebbe facile assegnare al groviglio elettronico, ipnotico e scuro del dj danese Trentemøller, esibitosi sul main stage nella seconda serata del festival, il palmares del soundtrack più appropriato per un contesto del genere. Di certo non stonava affatto neppure il trip hop sonnolento (un po’ alla James Blake) dell’australiano Chet Faker aka Nicholas Murphy che ha deciso di declinare una musica sorniona e furba come il suo nickname.
All’interno dello splendido auditorium Gong, ricavato da un hangar originariamente utilizzato per il trattamento del Gas, si è depositato il suono apocalittico e visionario di Guillaume Perret & Electric Pipe. Un quartetto elettrico piuttosto classico nell’organico (il sassofono del leader, un basso e una chitarra elettrici e una batteria), ma decisamente anomalo nella grammatica e nella grana sonora: echi delle «sheets of sounds» coltraniane, citazioni dell’ethio-jazz di Astatke, riferimenti al «Bitches Brew» davisiano, ma tutto cucinato con grande personalità, senza nessuna concessione agli ammiccamenti virtuosistici (fatto salvo un assolo, peraltro fenomenale, del bassista Philippe Bussonet). Musica per un jazz prossimo venturo, o per gli abitanti di un ipotetico satellite artificiale, di cui l’ex cantiere di Vitkovice sembra già essere, almeno nei contorni architettonici, una sorta di anticipazione terrestre.
I programmatori del Colours of Ostrava non hanno dimenticato naturalmente di essere innanzitutto un festival con un’indole world. Tra le mille occasioni di approfondimento sonoro caratterizzate da una matrice etnica vanno senza dubbio segnalati i tappeti sonori del Taksim Trio (clarinetto, baglam e quanun suonati con il tocco poetico dei grandi maestri, le effervescenze vocali e ritmiche della regina del Benin Angelique Kidjo (idioma yoruba e stilemi afropop), l’irruenza travolgente delle campane Assurd (affiancate anche dalla salentina Enza Pagliara e, nel progetto Ve Zou Via, anche dai fenomenali marsigliesi Lo Cor de la Plana), il duo (che poi dal vivo è un trio) composto dal giamaicano Winston McAnuff e dal francese Fixi e dalla loro musica che coniuga il levare del reggae con le ritmiche de la «segà» reunionense. Buone vibrazioni sono arrivate anche dal «Soul Man number two» (dacchè è stato paragonato spesso e non senza ragione a James Brown) ovvero Charles Bradley, dall’islandese Emiliana Torrini (che sebbene stia sempre nel guado del «vorrei essere una star ma non posso perché c’è già Bjork» riesce comunque a proporre alcune canzoni dal buon disegno armonico e vocale), e soprattutto dalle due Ysaia (mirabolante duo femminile che fa molto con poco, ammicca alle Cocorosie senza plagiarle e confeziona un live set davvero di prim’ordine).
Ci sarebbe da parlare a lungo anche di qualche disastro musicale e di certe assurdità performative – Zaz, Olafur Arnalds, Iyeoka, Anna K, David Wax Museum – ma preferiamo accennare a un tipo che ha dimostrato, nel set ceco che chiudeva il suo tour mondiale, cosa voglia dire «invecchiare bene». Cosa voglia dire cioè non solo continuare a fare bene quello che si è sempre fatto, ma continuare anche a trasformare, plasmare, stravolgere fertilmente il materiale e l’orizzonte stilistico. Un po’ come faceva gente come Miles, come Zappa, come George Harrison e, a tratti, anche Dylan. Stiamo parlando di Robert Plant, leone furente al tempo dei Led Zeppelin, finito in un frigorifero creativo per qualche anno e poi resuscitato sulla via del deserto. Sul palco di Ostrava, aveva una band di primo piano e due tra i protagonisti della sua rinascita: il chitarrista Justin Adams e il suonatore di riti (violino westafricano a una corda dal suono acre come una chitarrina distorta) Judeh Camarah. Plant, dopo aver partecipato nel 2003 al Festival au Desert in Mali, ha iniziato una convincente revisione della sua poetica. L’hard rock blues ledzeppelliano tiene sempre la barra, ma, come ha dimostrato il set in terra Ceca, viene corroborato da una sorta di esperanto tribal-trance fatto di melismi vocali, schitarrate e sviolinate taglienti, ossessioni ritmiche pompate da batteria e un nutrito pool di grandi tamorre. Un mix sonoro irresistibile, che ha smosso perfino le ciminiere di Ostrava.