Era stato a lungo un maestro elementare, Fernando Bandini, e aveva mantenuto l’attitudine dell’affabulatore. Non tanto parlava quanto prodigava, non importa se da un podio accademico o da un tavolo di trattoria, il talento di chi guarda all’altro, a un qualunque suo simile, come pari in umanità nel momento in cui gli offre un tesoro di pensieri e ricordi, talora di istantanee e riflessioni che la vita sembra avergli porto nel suo flusso più spontaneo e persino sbadato. Nessuno che l’avesse incontrato per caso avrebbe detto che quell’uomo elegante, così affabile con i suoi interlocutori, generoso di aneddoti e battute fulminanti nella loro appuntita gentilezza, era uno dei grandi poeti italiani e fra i testimoni estremi di una civiltà letteraria che ora sembra estinguersi insieme con lui.

Morto a ottantadue anni la mattina di Natale in un ospedale della sua Vicenza, dopo una lunga malattia, Bandini non aveva avuto un riconoscimento precoce perché erano prevalsi, nella ricezione, sia l’immagine dell’allievo di Gianfranco Folena all’università di Padova (dove aveva insegnato a sua volta metrica e stilistica) e dello studioso di Rebora e Leopardi (di cui diede nel ’75, per Garzanti, una splendida edizione commentata dei Canti), sia il cliché della figura ereditaria dentro una topografia segnata da due grandi presenze come quelle di Guido Piovene e di Goffredo Parise.

A costoro aveva dedicato molte pagine saggistiche, purtroppo non ancora raccolte in volume: dell’uno, l’aristocratico Piovene, lo intrigava a distanza (ed era una distanza non solo intellettuale, ma di classe, di educazione) il perpetuo e sanguinante rovello cognitivo, dell’altro, il quasi coetaneo Parise, ricordava l’esordio, con l’arrivo degli americani a Vicenza, e la sera in cui l’amico, sedendosi in cima alle scale di casa, aveva preso a leggere di colpo, nella costernazione dei presenti, il romanzo che si sarebbe intitolato Il ragazzo morto e le comete. Parise lo aveva battezzato poeta e un verso tardo di Bandini così ne rammenta le parole: «Fernando ha nella testa solo sogni e chimere». Non sbagliava il suo amico, perché Bandini non solo sarebbe diventato poeta, e che poeta, ma poeta trilingue vale a dire in italiano, in dialetto vicentino (amava anagrammare il nome di Vicenza in Aznèvic), e infine nel neolatino, degno del suo amato Pascoli, in cui tradusse per esempio La Bufera di Eugenio Montale. Oggi sappiamo che Bandini pagò a lungo, nel senso comune dei lettori, giusto l’ipoteca di Montale e dei post-montaliani quando, per parte sua, il riferimento era invece l’antipode di Umberto Saba e di un maestro-amico, Vittorio Sereni, che ne fu lo sponsor presso Mondadori propiziando la pubblicazione delle due raccolte intermedie, Memoria del futuro (’69) e La mantide e la città (’79), dopo l’esordio domestico, presso Neri Pozza di Vicenza, attestato dai fascicoli di In modo lampante (’62) e Per partito preso (’65).

Chiarezza del segno, partitura metrica che scandisce il ritmo senza mortificare il canto, una misura di netta e mai esorbitante riflessione sui fatti della vita e del mondo (Bandini, socialista e libertario, è stato un poeta politico senza affatto pretenderlo) ne sono i tratti elettivi, così come ossessivi da sembrare eterni sono i temi della sua produzione, circa i quali (in La poesia italiana nel Novecento, Laterza 1999) scrive limpidamente Fausto Curi: «Madre, infanzia e natura costituiscono per Bandini una triade, anzi una trinità che di fatto si risolve per lui in unità (…), un’unità che (…) possiede ai suoi occhi una sacralità pacata, non intaccabile dagli eventi, anche perché vorrebbe incarnare un’intrepida alternativa al Novecento più radicalmente disincantato e dissacrante e linguisticamente più avventuroso».

Non solo basterebbe citare i rilievi a contrasto su un altro dei suoi grandi compagni di via, Andrea Zanzotto (per cui scrisse nel ‘99 una memorabile introduzione al «Meridiano» Mondadori che ne conteneva Le poesie e prose scelte) ma si dovrebbe andare subito alla trilogia che progressivamente ne ha svelato il rango e l’originalità d’autore, Santi di Dicembre (’94), Meridiano di Greenwich (’98) e Dietro i cancelli e altrove (2007) tutti editi nella collana verde di Garzanti cui va aggiunta una plaquette stampata nel 2010 da l’Obliquo di Brescia il cui titolo deminutorio, Quattordici poesie, non potrebbe essere più bandiniano. Qui la sua parola ha un ulteriore smaltimento, il segno diviene più leggero intramandosi al portato dei ricordi, mentre il senso coincide con la restituzione al presente, e in stato di integrità, di figure del passato o dell’altrove altrimenti sfuocate, dileguanti, perdute.

È per questo che la poesia di Fernando Bandini è politica, in quanto reclama mutamente la pienezza e anzi l’integrità dell’umano nel mondo della disumanità organizzata e oramai normalizzata, come sanno i suoi lettori di sempre, dai poeti di Sul Porto (Ferruccio Benzoni, Stefano Simoncelli, Valter Valeri che lo ospitarono già negli anni settanta sulla rivista di Cesenatico) al filologo Rodolfo Zucco, che gli ha dedicato pagine penetranti, e Paolo Lanaro, un altro notevolissimo poeta che ha curato per gli ottant’anni del maestro, da Galla Libreria di Vicenza, Indigeno e Foresto. Studi, versi e disegni in onore di Fernando Bandini (con i contributi di alcuni bandiniani storici e tra gli altri di Franco Contorbia, Lorenzo Polato, Gian Luigi Beccaria, Goffredo Fofi, Emilio Franzina, Roberto Galaverni, Giorgio Pullini, Fabio Pusterla, Lorenzo Renzi, Silvio Ramat).

C’è tutto Bandini e il senso di un congedo nella poesia dedicata a Parise che, in Dietro i cancelli e altrove, si intitola Anniversario del ragazzo morto: «(…) Non mi ha scorto/ (o forse ha fatto finta/ di non vedermi), non mi ha detto ‘ciao’,/ come il ragazzo morto disse a Fiore/ in una notte di nevischio sulla/ spiaggia deserta. E non aveva il viso/ smunto che hanno i fantasmi/ ma gocce sulla fronte del sudore/ della sua giovinezza».

Quei fiocchi di neve posati su una fronte madida in realtà sono frammenti di selce, perle e pietre dure di una poesia che solamente oggi cominciamo a riconoscere.