Un autore, scriveva Pier Paolo Pasolini in un saggio del 1967, «è sempre una contestazione vivente. Appena apre bocca, contesta qualcosa, al conformismo, a ciò che è ufficiale, a ciò che è statale, nazionale, a ciò che va bene per tutti».

A quarant’anni dalla sua morte, anche Pasolini è diventato una sorta di monumento nazionale, sebbene l’Italia sia ancora – per utilizzare una delle sue più celebri sineciosi – quel paese stupendo e misero contro il quale aveva scagliato la sua protesta fisica e vivente. L’eterodossia contestataria pasoliniana, infatti, sembra ormai assorbita dal sistema che intendeva scalfire, tanto che la sua figura, spesso innalzata come un vessillo ricamato di qualsivoglia ideologia e di motti disgiunti da una reale conoscenza della sua opera, è divenuta un’icona dell’immaginario nazional-pop, un volto serigrafato in serie sulla nostra cattiva coscienza.

A fare i conti con questa percezione massificata di quello che Walter Siti, in un malcelato tentativo di superamento edipico, ha chiamato il mito Pasolini è anche la grande mostra Officina Pasolini (fino al 28 marzo), dedicata al suo universo poetico, estetico e culturale. Allestita nella sala principale del Museo d’Arte Moderna di Bologna, la mostra è curata da uno dei più raffinati interpreti dell’opera pasoliniana, Marco Antonio Bazzocchi, insieme a Roberto Chiesi, che dirige con raro vigore il Centro Studi-Archivio P. P. Pasolini, e Gian Luca Farinelli.

Officina Pasolini propone un’immagine complessa dell’autore attraverso un’attenta e documentata ricognizione della sua formazione intellettuale e soprattutto dei suoi miti poetici. Ad accogliere il visitatore è così la voce chioccia di Roberto Longhi che commenta Carpaccio in un celebre cortometraggio del 1946. A Longhi, cui Pasolini dedica significativamente una serie di ritratti presenti nella mostra, si deve la sua folgorazione figurativa, quando, studente a Bologna, scopre nelle lezioni del maestro il realismo corporeo di Masaccio, poi trasposto nella sua prima opera cinematografica. Tra preziosi documenti, fotografie d’epoca, riviste quali «Architrave» e «Officina», e rarissime prime edizioni, emerge la figura di un giovane poeta che cerca di dare forma alla propria identità d’intellettuale nella Bologna del ventennio. Tra le sorprese, una fotografia ce lo mostra infatti in divisa del GUF, a fianco di un biondissimo e occhialuto ragazzetto della gioventù hitleriana, ben prima, dunque, dell’iscrizione al PCI che lo espellerà per indegnità morale a causa della sua omosessualità, un aspetto, quest’ultimo, che la mostra affronta solo indirettamente, nonostante sia, di fatto, il nucleo irradiante della protesta del poeta.

Il cuore di Officina Pasolini sta nell’ampia sezione dedicata ad alcuni dei miti pasoliniani, intelligentemente concepita dai curatori in forma di una grande cattedrale, quella cattedrale napoletana, fra le altre, in cui l’autore interpreta il ruolo di un pittore, un allievo di Giotto, nel suo Decameron. In questa meta-architettura, al posto delle vetrate istoriate sono proiettati frammenti dell’opera cinematografica del regista, che suddividono lo spazio in sei cappelle laiche dedicate rispettivamente al Friuli, alla madre, a Cristo, alla tragedia classica, alle borgate, e ai popoli lontani che sono al centro della riflessione panmeridionalista di Pasolini. Sono miti rievocati attraverso una prospettiva interdisciplinare, che dona spazio alla grafica e alla pittura, a video d’epoca e letture, ma soprattutto allo straordinario repertorio di immagini scattate da fotografi tra i quali Angelo Novi, Mario Tursi, Antonio Masotti e Dino Pedriali, di cui sono esposti anche gli scatti di Pasolini nudo che avrebbero dovuto far parte di quell’altra cattedrale incompiuta che è il romanzo Petrolio. Alle sue pagine è riservata un’apposita sezione-cripta in cui gli spettatori sono invitati a portarsi via una copia del celebre j’accuse che ha inizio con le parole «Io so».

A emozionare il visitatore sono soprattutto gli oggetti e le carte esposti per la prima volta, come la cartellina color ruggine che raccoglie il «romanzo incompiuto» Amado mio, o le pagine manoscritte dell’Ur-Ricotta, un trattamento intitolato Le fave. La scrittura di Pasolini, così potente nella sua onnivora debolezza che la espone costantemente al fallimento, su queste pagine ingiallite si stacca come una pellicola dal corpo immateriale dell’autore per farsi segno tremante, correzione e pentimento che rende patente il lavorio ininterrotto della sua officina. In maniera molto efficace, l’idea proustiana dell’opera come cattedrale incompiuta, suggerisce l’interpretazione complessiva di un’opera necessariamente frammentaria, il cui unico elemento coesivo sembra essere proprio il suo autore. Ecco allora le figure proiettive di Ninetto e Totò, che nella sezione dedicata alle maschere e icone pasoliniane rivediamo insieme alla dolente sequenza dedica alla Marilyn Monroe della Rabbia e a una foto di Maria Callas di fianco a un inedito Pasolini, umanissimo e quasi buffo con i suoi sgargianti calzoncini corti. Anche agli abiti di scena, alcuni dei quali sono disposti come un lugubre popolo muto al centro della cattedrale, è dedicata particolare attenzione nell’ultima parte, in cui la mostra sembra perdere parte della sua coerenza architettonica. Intorno all’ampia gonna dell’abito indossato da Hélène Surgère in Salò ruotano tre sale-gironi che toccano velocemente il tema della violenza, l’ossessione pasoliniana per la borghesia e il suo rifiuto per la logica anti-democratica della televisione.

Nonostante la mostra si concluda con una parentesi aperta, citando la frase finale che avrebbe dovuto pronunciare Eduardo De Filippo nel mai realizzato Porno-Teo-Kolossal («nun esiste la fine»), il riferimento all’onnipresenza della figura e del mito di Pasolini nella cultura di oggi, la sua importanza per molte generazioni di artisti e registi è purtroppo rappresentata solo da due suoi modesti ritratti di Schifano e Kiarostami: sono opere ben inferiori al contributo di quegli artisti di fama internazionale, da Derek Jarman a Yorgos Lanthimos, da William Kentridge a Mike Kelly, che hanno riflettuto senza retorica sull’importanza per il nostro presente di questa figura, il cui mito è tutt’altro che aproblematico. Per intellettuali come Lévi-Strauss e Barthes, al centro del pantheon culturale pasoliniano, il mito è una soluzione immaginaria, che contribuisce all’organizzazione di un mondo privo di contraddizioni. Mentre, come ha scritto acutamente George Didi-Hubermann, i miti spiegano e rassicurano, Pasolini è stato una di quelle rare figure capaci di disturbare profondamente il proprio tempo; e perché sia capace di disturbare ancora anche questa nostra stagione, sembra dirci la mostra di Bologna, occorre reimparare a conoscerlo.