Alla fine degli anni Settanta, l’East Village a New York non brillava certo come il quartiere trendy che oggi conosciamo nella geografia urbana di New York. La città stava attraversando una profonda crisi sociale causata dal crollo delle finanze comunali e dalla graduale riduzione dei programmi sociali. Anche Manhattan subì le conseguenze di questa ristrutturazione, con ampie porzioni del suo territorio pesantemente colpite. L’East Village si distingueva per il suo mix di edifici popolari e strutture abbandonate, con una popolazione composta principalmente da senzatetto, tossicodipendenti e una folta comunità di giovani artisti attratti dai prezzi degli affitti straordinariamente bassi. Patti Astor, attrice e sceneggiatrice cinematografica, è uno dei giovani che si sono gettati nell’atmosfera vibrante della scena downtown in cerca di identità e spazi culturali per esprimersi. Navigando indenne attraverso questo mondo underground, Patti ha vissuto da protagonista le fasi più creative della vita culturale di New York.

Dal frequentare il CBGB’s dal 1976 al 1978, assistendo alla nascita della scena punk rock, al suo passaggio al Mudd Club, dove divenne una figura di spicco nella scena new wave, recitando in numerose produzioni underground, fino alla fondazione della Fun Gallery, diventando una delle figure chiave del nascente fenomeno del graffiti writing. La sua interpretazione di una reporter downtown nel film Wild Style l’ha resa un’icona, simbolo di quell’incredibile periodo nella vita artistica e musicale di New York. Purtroppo, il 10 aprile si è verificata la triste scomparsa di questa figura leggendaria. Questa intervista intende essere una celebrazione e un ricordo del suo contributo alla scena underground di New York.

Com’è iniziata la tua storia hip hop?
Nel 1980, ho avuto un ruolo in Underground USA, diretto da Eric Mitchell, una sorta di versione punk rock di Sunset Boulevard. Il film dipingeva vividamente la scena artistica che si era formata intorno al Mudd Club, proprio come Wild Style avrebbe fatto qualche anno più tardi, narrando l’energia delle prime feste hip hop nel Bronx. La mia storia con il graffiti writing ha avuto inizio quando ho incontrato Fab Five Freddy a una festa in un loft nel centro della città. Fab aveva invitato Futura e Kyle Jenkins a vedere il film. Conosceva bene la scena downtown, essendo un assiduo frequentatore delle feste, e grazie alla sua relazione con Blondie e al singolo Rapture. Quando Fab mi ha visto, ha detto che ero la sua star cinematografica preferita e che ero «down by law». Io gli ho risposto che lui doveva essere sicuramente il mio nuovo miglior amico. E andò effettivamente così.

La scena downtown incontra quella uptown…
Uno dei primi momenti in cui la scena downtown e uptown dimostrarono di poter essere in sintonia fu durante le riprese del film Snakewoman, una produzione low-budget girata interamente a Central Park, fianco a fianco di quei giovani che suonavano con i loro sound system all’aperto. Punk rocker e b-boy condividevano un’estetica simile. I punk non avevano soldi, si arrangiavano al meglio con ciò che avevano, facendo esattamente ciò che desideravano. Allo stesso modo, i b-boy si collegavano illegalmente al sistema elettrico per le loro feste, senza alcuna autorizzazione. Se a downtown cercavamo di creare un’identità punk rock, uptown cercavano quella hip hop.

La gente che ho incontrato al CBGB’s ha poi creato il Mudd Club. Ma in quel periodo gruppi come Blondie e i Talking Heads erano già diventati popolari, e per noi sembrava che la musica fosse finita e stessimo cercando qualcosa di nuovo. Abbiamo iniziato a girare film underground in Super 8, li trasferivamo su video e li proiettavamo nel club. Poi Jim Jarmusch divenne famoso con il suo film Permanent Vacation (1980), e sembrava che anche quella vena creativa stesse esaurendosi quando improvvisamente emerse il fenomeno del graffiti writing. Il momento simbolico e di transizione fu quando il proprietario del Mudd Club aprì uno spazio espositivo al quarto piano dello stesso edificio. Beyond Words fu la mostra che inaugurò il locale e mise in contatto quei due mondi per la prima volta. Afrika Bambaataa era il dj e in esposizione c’erano opere di Keith Haring, Fab Five Freddy, Jean-Michel Basquiat, Futura e altri writer. Vivendo nell’East Village non eravamo immersi nella cultura della subway, anzi prendevamo la metropolitana raramente, ci spostavamo sempre a piedi. Ho iniziato ad andare uptown con Fab Five Freddy e lui mi ha presentato Lee Quinones e Futura. I tre, in seguito, hanno preso uno studio insieme sull’Avenue D, e ho trascorso tutto il mio tempo con loro. Quei ragazzi hanno subito capito che uscire con me significava l’accesso immediato all’area vip di ogni club, quindi mi adoravano.

Ero molto popolare all’epoca. Nonostante ciò, vivevo in un appartamento da 65 dollari al mese proprio di fronte al Men’s Shelter, un edificio occupato da senzatetto. Tutti gli artisti vivevano su quella strada: era chiamata la strada delle star. All’epoca nel quartiere vivevano solo artisti e spacciatori d’eroina, era come una città nella città.

Come è nata l’idea di aprire una galleria d’arte?

L’idea della galleria è nata in modo del tutto casuale. Futura voleva farmi un regalo dipingendomi un quadro, ma io gli ho risposto che preferivo un pezzo sulla parete del mio appartamento. Così, ha suggerito di organizzare un barbecue e una festa per mostrarlo a tutti. Mentre Futura dipingeva il muro, Kenny Scharf (all’epoca conosciuto come Van Chrome) si è preso cura della personalizzazione dei mobili e dei termosifoni, attaccando anche piccole figure sul frigorifero e sulle stoviglie. Sono arrivati Keith Haring, Fab Five Freddy, Dondi e molti altri. Ad un certo punto, Keith ci ha chiamati tutti alla finestra e abbiamo visto uscire da una limousine Diego Cortez insieme a Jeffrey Deitch, uno dei più importanti galleristi del mondo dell’arte. Da quel momento in poi, il mio appartamento è diventato una sorta di feste continua, con il mondo dell’arte di strada che si incontrava con quello più esclusivo e istituzionale. In quel periodo, il mio amico Bill Stelling mi ha detto di avere uno spazio piccolo dove potremmo aprire una galleria e mi ha chiesto se conoscessi artisti per iniziare questo progetto… La location originale era in Decima strada tra Seconda e Terza Avenue.

Era il 1981. Abbiamo fatto circolare la voce dell’apertura della galleria e della nostra ricerca di artisti da esporre. Il primo a presentarsi è stato il mio ex marito, Steven Kramer, un musicista e artista incredibile. Abbiamo presentato circa venti opere al costo di cinquanta dollari l’una. Le abbiamo vendute tutte in un solo giorno! Ora avevamo una galleria e volevamo distinguerci dalle altre, lasciando a quei giovani tutta la libertà artistica, compresa la possibilità di scegliere il nome della galleria. Il secondo artista a esporre è stato Kenny Scharf, e proprio lui ha scelto il nome: «Fun Gallery». Poi è stato il turno di Fab, e con lui sono iniziate ad arrivare le limousine con collezionisti del calibro di Bruno Bischofberger. Tutto è successo così velocemente, e all’epoca non avevamo idea di cosa stessimo creando.

Quali sono le ragioni del successo trasversale della Fun Gallery?
La ragione per cui la Fun Gallery ebbe un tale successo, il motivo di quel mix unico di persone che si radunavano ai miei party, è che all’epoca ero già una figura di spicco nella scena downtown. Ero sulla copertina di tutte le riviste underground per i miei film e conosciuta come la regina delle feste. Questo è il motivo per cui persone come Bruno e altri collezionisti venivano alla galleria: altrimenti non avrebbero mai scoperto quel fenomeno né frequentato posti con così tanta diversità. Per un opening alla «Fun Gallery» potevano presentarsi anche migliaia di persone. Così iniziarono a girare molti soldi, ma il comportamento di alcuni di questi collezionisti era piuttosto aggressivo. Erano capaci di entrare nella galleria e comprare cinque o sei dipinti, e noi chiamavamo queste situazioni «corporate selection.

Gli artisti, sebbene giovani, non erano certo degli sprovveduti e cercavano di farsi valere e sfruttare la situazione. Per quanto mi riguardava, volevo creare uno spazio dove ogni artista potesse esprimersi appieno. Ogni mostra era uno spettacolo unico, dedicato a un singolo artista.